mercoledì 27 febbraio 2013

Corso di teatro Drammaterapico per le Risorse 2013


CORSI DI CREATIVE DRAMA  E CINEMA-DRAMATERAPIA PER LE RISORSE
Liberazione delle Risorse e sviluppo della Creatività, questi sono i target che promette di raggiungere il Corso di Creative Drama. L’Atelier DramaticaMente Teatro è, diretto da E. Gioacchini, psichiatra, psicoterapeuta e formatore e da Maria Luisa Pasquarella, attrice e formatrice, in collaborazione con l’Istituto Scuola Romana Rorschach, insieme ad uno staff di professionisti qualificati, provenienti dall’area psicologico-educativa e dello spettacolo.
Il Corso è mirato a far sperimentare la possibilità di proiettare fuori di noi, le abilità e la creatività, così realizzando una dimensione autentica della nostra persona, conducendo i partecipanti lungo un percorso provocatorio e ludico, tra le possibilità e le risorse della mente. Un iter attoriale in stage domenicali e laboratori serali per i quali non è richiesta alcuna competenza iniziale. La metodologia si riferisce all’utilizzo della Creative Drama come metodo che permette ai partecipanti l’espressione creativa del proprio “processo artistico”, attraverso una vasta gamma di strumenti quali la recitazione, l’hypnodrama, lo storytelling, la musica, il gioco, la tecnica del mimo, il movimento e la danza.

Il corso è indirizzato anche a tutti coloro che intendano approfondire la conoscenza della Drammaterapia per le Risorse, quali educatori, insegnanti, attori, psicologi e professionisti impegnati nella relazione d’aiuto, oltre ad un pubblico non professionale.

Agevolazioni nell'iscrizione per professionisti e studenti ed allievi della Scuola Romana Rorschach.
SEDI, Roma e Milano
INFO, info.atelier@dramatherapy.it
www.drammaterapia.it
www.dramaticamenteteatro.blogspot.com
Ermanno Gioacchini (P.I. 10696770584)
Cell. 340-3448785
Paola Perfetti
Cell. 349-3424218

Vito Rocco Genzano
Cell. 320-4735565



IO RITUALISTICAMENTE, Decostruzione e Rimodellamento del Reale

LABORATORIO DIMOSTRATIVO dell’Atelier DramaticaMente Teatro, aperto al pubblico, in occasione della presentazione dei nuovi corsi di Creative Drama di primo e secondo livello (inizio marzo 2013).

Traccia per il laboratorio è Julio Cortázar ed il suo pensiero radicalmente anticonformista,intriso di fantastico e fuori gli schemi di una creatività che si costituisca divergente nel dipolo consueto/inusuale.
Ma l’autore, per poter colpire alla radice l’ordine costituito delle cose, deve prima entraci dentro, abitare le stanze della quotidianità del mondo e disvelarne l’intrinseca contraddizione dall’interno. Sintomatico ed insieme emblematico di questo passaggio apparentemente incruento e senza dolore (ma solo apparentemente) sono le Historias de Cronopios y de Famas (1962), un esperimento surrealista ben riuscito che si diverte (perché opera zeppa di comicità) a cambiare costantemente i punti di osservazione dei soggetti, destrutturandola realtà e ricostituendo monumenti alla vena “folle” insita nella interpretazione del reale.
Cortázar esaspera le nostre abitudini sino al grottesco, all’assurdo, ma anche oltre. E’ la ritualità che giunge ad addormentare le possibilità interpretative del nostro Io, ad essere in scena con i suoi racconti. Eidetica, ma sicuramente anche auditiva e cenestesica, l’espressione letteraria di questo autore, che riesce a farci ridere, con tutti i “cinque sensi” dell’invidia, della gelosia, della paura, della vergogna e del pudore, del ruolo codificato, come dei maldestri e comici tentativi di romperlo a volte ed illudersi finalmente liberi!
Il testo di Cortázar, ma ancor prima la sua acuta critica dell’ovvio, alla ricerca dell’autentico, offre spunti speciali alla riflessione nel processo di costruzione teatrale, come nella decodificazione dei “drama” che sono sottesi alla drammaturgia.
Il Teatro-Laboratorio dell’Atelier, enfatizza ad usare il pensiero creativo e sollecita ad entrare nelle brevi emblematiche storie dell’autore, ad esercitare anche solo per poco un’utile ed importante destrutturazione del modello del mondo che adottiamo, per chiederci come arricchirlo senza effetti collaterali!















INFO
Sede, Roma
info.atelier@dramatherapy.it
www.dramatherapy.it
Ermanno Gioacchini
(P.I. 10696770584)
Cell. 340-3448785
Paola Perfetti
Cell. 349-3424218
Vito Rocco Genzano
Cell. 320-4735565

martedì 1 febbraio 2011

Cinema Therapy e Cinema-Drama Terapia, Disegni Sociali e Artistici, di Plino Perilli

Plinio Perilli durante la conferenza introduttiva alla piece drammaterapica
"Il Fissatigre" di E. Gioacchini, 2007
 Il 3 febbraio a Roma, presso il Creative Drama & In-Out Theatre (CDIOT), sarà ospite Plinio Perilli con la presentazione del suo ultimo volume "Costruire lo Sguardo", vastissimo e intreccaito repertorio sui rapporti tra il Cinema e tutte le altre Arti. L'autore presenterà anche il Seminario di Cinema-Drama Terapia condotto dal direttore del CDIOT, E. Gioacchini.

@ P. Perilli

Che il Cinema, per la sua stessa natura, rituale e implosa, di piccolo-grande scenario o spettacolo di Psiche, sia dotato o possa essere comunque utilizzato, sollecitato per le sue forti virtù affabulanti, catartiche e dunque terapiche, apparve chiaro fin dai suoi primordi. E se le gags rutilanti delle prime comiche di Cretinetti e Max Linder, l’immenso Charlot, perfido e melanconico, lo stesso “lunare” Buster Keaton, i metafisici fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy… lenivano i traumi storici o esistenziali del primo approccio e ingresso nella Modernità (ma anche l’inferno della Grande Guerra, il purgatorio del dopoguerra), i grandi romanzieri per immagini carezzavano per virtù d’intreccio, dramma risolto, vicissitudine salvifica, la voglia e forza di progresso che l’Europa e il Mondo tutto chiedevano in fondo a ‘900.
Ma anche qui, c’è misura e misura. Ci furono insomma registi che restarono alla superficie dei problemi e dell’anima, ed altri che invece si tuffarono a picco fin dentro ai gangli del dissidio (sociale), del malessere (individuale) – insomma di quella che già Herr Nietzsche battezzava “la malattia chiamata uomo”…
Così Tempi moderni (1936), tanto per dire, non fu solo la parodia ma anche il lenimento scanzonato e insinuante contro le tare e le accelerazioni del fordismo industriale, e insomma dell’alienazione accelerata del nuovo mondo del lavoro…
Per virtù doppiamene artistica, gli autori devoti al surrealismo (Luis Buñuel su tutti) giunsero a lidi e plaghe dello spirito annodate e misteriche: corroboranti d’eccezione, diciamolo, per la macchina Cinema –sempre del resto alle prese con le più insondabili potenzialità dei “generi”… Si pensi al gran lavoro che un regista come Hitchcock ha svolto sui reconditi ardimenti o stordimenti di psiche… Veri e propri classici come Io ti salverò (1945) o Vertigo – La donna che visse due volte (1958), ne danno ampiamente conto. Non a caso la notissima sequenza del sogno che perseguita Gregory Peck – in Io ti salverò – fu “disegnata” da Salvator Dalì… Quando poi la Decima Musa trovò altri veri e propri geni come Bergman, Welles, e poi Kubrick – non poté più esserci alcun dubbio: il Cinema celava e proteggeva in sé una fortissima carica psicoterapica, immaginifica, di puro e sano transfert in nome di ogni pur bieco dramma da disciogliere, di ogni ennesima, commedia da rappresentare, e in cui forse addirittura poter noi stessi entrare…
Entrare, entrarci – entrar direttamente dentro allo schermo e a quelle stesse storie, come ci induce a fare in fondo l’esilarante, autocritico Woody Allen con la sue farse serissime e insieme scanzonate (Io e Annie, 1977; Manhattan, 1979; soprattutto, La rosa purpurea del Cairo, 1985)…
Da noi, intanto, Totò e Peppino, in qualche modo perfino Sordi e Manfredi, Tognazzi e Gassmann e tutti gli altri moschettieri della cosiddetta “commedia all’italiana”, facevano un gran lavoro se non altro sull’inconscio collettivo –per non dire sulle tare (talvolta anche sui pregi!) del “costume”…
Ma i gran registi delle contraddizioni, del malessere –della terapia dell’Io verso l’incomunicabile, spesso inaccettabile Altro da sé) furono Fellini e Antonioni– diversissimi ma anche assimilabili. La dolce vita e Otto e mezzo, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso… furono film che, in pieni anni ’60, raccontarono meglio dei sociologi o degli scienziati di psiche il travaglio di una società consumistica che col benessere del consumismo inoculava però, assieme, anche i veleni, lo stress, mille ansie indicibili.

Restiamo al fermento italiano: una nuova generazione (allora, di baldi giovani!), quella dei Marco Bellocchio e dei Bernardo Bertolucci –affidò al cinema certo un ruolo privilegiato, nella grande rivolta sociale (ma soprattutto psicologica, introiettata) succeduta e sospinta dal ’68… E anche qui, film come I pugni in tasca, Il conformista, Ultimo tango a Parigi, ebbero grandi meriti di sincerità e denudamento doveroso.
Pier Paolo Pasolini, intanto, continuava il suo gran lavoro combinatorio tra immagine e poesia, protesta e denuncia… Ma –udite udite!– affidate all’arte. Titoli come La ricotta (1963), Uccellacci e uccellini (1966), Teorema (1968), lasciarono il segno.
E molti altri grandi numi tutelari continuavano a mettere in discussione –per fortuna– la nostra malcelata tranquillità o crisi d’ansia borghese, le nostre false sicurezze, le malattie meno diagnosticabili ma certo non meno infauste… Ingmar Bergman con –tra gli altri tanti capolavori – Il posto delle fragole, 1958; Sussurri e grida, 1972; Scene da un matrimonio, 1973; L’immagine allo specchio, 1976… Lo stesso Kurosawa migliore (quello ad esempio di Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure, 1970); Jacques Tati e il Playtime dell’alienazione (1967)…
Ad ogni generazione che sopravviene, il Cinema trova, gioca nuove chances di denudamento dell’Io, e cento approcci fantasiosamente psicoterapici: addirittura di laica, mimetica rappresentazione (come una volta fu per il teatro!) di tanto e tale malessere. Lo fece Wim Wenders con la sua Germania ancora piena di cicatrici e ferite storiche, insomma con gli angeli “umanati” de Il cielo sopra Berlino (1987)… Lo fece Pedro Almodóvar coi più belli dei suoi film – ed una Spagna che appena uscita dal franchismo e da una grigia dittatura anche della coscienza, ritrova desideri, fervori, perfino incubi nuovi: Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), Tutto su mia madre (2000), Parla con lei (2002)…
Con Quentin Tarantino –e il vizio/vezzo di un fin troppo statunitense, e più che estremo genere “splatter” –arriviamo all’ultimo gradino della discesa ad inferos di un moderno, modernissimo “male di vivere”… Una risultanza e una reazione violenta alla mera e cruda violenza che –per fortuna – sfocia come in un’autoparodia catartica, in un’accelerazione plasticata e giocata… Ed è in fondo proprio la tecnica (eventualmente la postmoderna contro-morale!) dell’accelerato genere “horror”… Le iene (1992), Pulp fiction (1994), restano per fortuna solo fiction… Più ce ne rendiamo conto, più le allontaniamo da noi, dal nostro habitat e dal nostro cuore…
Qualcosa da individuare e strappar via, come una neoplasìa, un tumore forse ancora benigno che la Società non può permettersi, né ammettere: se non proprio mettendolo in scena, calandolo e cauterizzandolo in Spettacolo, nel teatro perenne o subitaneo, trasparente o perfettamente calcato, sudato, dei nostri eventi d’esistenza: “Il Teatro: ecco la trappola” – fa dire Shakespeare ad Amleto – “in cui prenderò la coscienza del re”…
Nient’altro davvero è il buon Cinema che un inopinato, trasfigurante teatro per immagini. Terapia ed empatìa assolute, se lo spettatore/paziente vi si affida con la serenità di chi anche da fermo sa e vuole intraprendere dei lunghissimi viaggi interiori.

Testo consigliato: Plinio Perilli, Costruire lo Sguardo (Storia Sinestetica del Cinema in 40 grandi registi”), Gruppo Mancosu, Roma, 2009.

sabato 29 gennaio 2011

ALTRE VISIONI, performance di canto per voce nuda ed arpa bardica, di N. Maroccolo e C. Lauri

Il 3 febbraio a Roma (h. 20.30), il Creative Drama & In-Out Theatre, diretto dallo psicoterapeuta E. Gioacchini presenta una intensa performance di voce ed arpa, nel contesto di un seminario di Cinema-Drama Terapia, aperto a pubblico e professionisti del settore.

Perfomance di N. Maroccolo e C. Lauri alla Galleria d’Arte Moderna,
intitolata a Giacomo Manzù, di Ardea, 8
ottobre 2010
Nina Maroccolo, insieme alla musicista Cristiana Lauri, moderne e delicate trovadore, seguendo l’intuizione e il bisogno di “Altre Visioni”, accompagnano, teatralizzano e cantano sul palcoscenico della cinema-drama terapia, fabulando in una singolare performance artistica. Attivando le emozioni del pubblico, concederanno ad esso lo specchio ideale in cui ritrovarsi.

Ingresso gratuito (gradita prenotazione), info.atelier@yahoo.it

martedì 25 gennaio 2011

Che cosa è la Cinema-Dramaterapia

Per discutere di cinema-dramaterapia è necessario fare qualche premessa epistemologica e metodologica sulla Cinema Therapy.
La funzione sciamanica, quasi 'profetica' che può essere riferita all'arte, nel contesto psicoterapeutico della cinema therapy, è realizzata pienamente in quello che secondo Birgit Wolz e molti altri psicoterapeuti è definito come “sciamanesimo moderno”. Si tratta di un lavoro interno al soggetto, suscitato dalla pellicola, in un setting di terapia, ma anche formativo e ricreativo. In queste situazioni, quella che viene ad essere stimolata è una “catarsi”, nell’accezione più moderna del termine, che spesso si svolge senza discussione esterna visibile, senza un’interpretazione del dialogo -una serie di operazioni mentali che coinvolgono profondamente i processi inconsci nella sfera cognitiva ed emozionale dell’individuo (Tyson, Foster, e Jones, 2000), anche al di fuori della sua consapevolezza. In drammaterapia la catarsi è l’equivalente di un processo rappresentativo che comporta una nuova attribuzione di senso a quanto si esperisce nella specifica rievocazione. In tale direzione lavora quello che definiamo processo dramma terapico, una costante stimolo da parte del vissuto rappresentato dal soggetto e dal gruppo ad evocare quanto sommerso: in questo consiste il drama.
Quest’ultimo concetto ci riporta a re-introdurre nella comprensione del meccanismo “curativo” l’importanza dell’azione, della partecipazione sensoriale-emotiva, all’attribuzione di significato propria dell’insight, quale comprensione della propria vicenda nel contesto degli elementi più significativi della personalità. Dunque, la dimensione transferale colta da Freud in poi nei sentimenti (agiti o pensati, consapevoli o meno, verso il terapeuta e verso il mondo). Afferma Fornari in proposito: “…il transfert significa che gli affetti non presentano se stessi, ma stanno al posto di qualcosa d’altro, di altri affetti, per altre persone. Il transfert contiene la situazione teatrica, nel senso che l’affetto per una persona trasforma la persona in qualcosa che sta al posto di un personaggio”. Ed in questo particolare approccio terapeutico è fondamentalmente rispettata la libertà del rapporto e la sua profonda indipendenza proprio attraverso la dimensione della “intersoggettività”, che non esclude le dinamiche transferali, ma che sottolinea la laicità nella relazione d’aiuto, rispetto al modello paternalistico o solo informativo di alcuni contesti (della trasmissione dei dati). Il Glossario del Researching Society and Culture dà questa definizione del termine "intersoggettività: “ …è costituita dal senso commune dai significati comuni costruiti dagli individui nelle loro interazioni reciproche ed utilizzati come risorsa costante per interpretare il senso degli elementi della vita sociale e culturale” (Second Edition, Clive Seale Editor). Quanto espresso bene si condensa nelle parole di Hans Jonas quando afferma che “…la responsabilità verso l'altro non ha tanto la funzione di determinare quanto quella di rendere possibile”.
Appare immediatamente evidente come, nella visione di un film, si realizzi una intensa condivisione “culturale” di alcuni contenuti che, tuttavia, lasciano possibile la “significazione” personale della trama, delle azioni, degli eventi descritti. Questo coinvolgimento dello “spettatore”, dove guidato, discusso ed elaborato, elicita una fantasmatica che ripropone conflitti e risorse ed offre una preziosa opportunità verso il superamento ed il cambiamento. L’apparente “mascheramento” della propria vicenda, come rivissuta, all’interno del soggetto cinematografico, riproduce esattamente quanto avviene nello psichismo con i significati manifesti, ma poi, paradossalmente offre la possibilità di togliere la maschera alle zone d’ombra della persona, quelle che sono sempre responsabili del sequestro delle energie e delle risorse, altrimenti utilizzabili ed inerisce ai contenuti latenti. Attraverso il setting di cinema therapy vi è lo stimolo ad costante processo d’identificazione (assimilazione al personaggio o discostamento da lui) che fanno dello stesso setting terapeutico un “oggetto transazionale” (E. Gioacchini, 2005). Afferma Birgit Wolz, una delle voci più autorevoli della cinema therapy: “…l’'osservazione di un film ha un effetto magico, più di qualsiasi altro mezzo di narrazione; i film hanno la potenza di dipingerci fuori da noi stessi e nell'esperienza dei loro personaggi. Allo stesso tempo, è spesso più facile mantenere una distanza o una prospettiva sana durante l'osservazione di un film di quanto lo sia in situazioni di vita reali”…e sarebbe proprio questo elemento che nel contesto di una qualsivoglia psicoterapia darebbe luogo a processi di trasformazione e guarigione. Inoltre, deve essere osservato che questo felice accostamento alla “verità” umana del soggetto, sia da parte dello stesso che del terapeuta nel setting di cinematherapy è mediato attraverso la condivisione, ma non permette inganni nei confronti dell’autenticità, eludendo molte delle possibili resistenze del soggetto.


Se quanto brevemente riassunto descrive l’essenza della cinema therapy, è nella stessa azione cinematografica che risiede il senso della cinema-drama-terapia, così coniato (E. Gioacchini, 2006); sia che venga utilizzata in contesti clinici o solo a scopi di formazione o ricreativi.
Si deve premettere che questa metodologia non si riferisce unicamente al sincretismo tra il setting drammaterapico e quello della cinemathearpy, quale giustapposizione di due metodi. Formalmente si può descrivere l’operazione distinguendola in due momenti: 1) quello dell’azione dramaterapeutica che ha avuto luogo con la contestuale ripresa registrata e (2) quella che si riferisce alla possibile ridefinizione terapeutica attraverso l’elaborazione da parte del gruppo. Ma non si tratta unicamente di questo. A significare il modo intimo e sinergico in cui vi è l’incontro delle due tecniche, basterebbe notare come, nella prima fase, il grande '"occhio" del mezzo di ripresa che registra la situazione in atto viene sfruttato nella sua indubbia azione “interferente” su quanto si sta svolgendo.. Infatti, nella situazione di ripresa, mentre è in atto il processo dramma terapeutico, non c’è solo un soggetto/oggetto del gruppo o l’audience del pubblico, a rappresentare l'altro (quanto perfomato dagli attori), ma è piuttosto l’intero gruppo, il “teatro” nelle sue componenti ad essere oggetto di una osservazione “aliena”: la macchina da presa. La drammatizzazione viene inserita in una meccanismo del tipo matrioska, che riporta il processo ad una costante meta-categorizzazione delle relazioni; una comprensione non unicamente affidata all'azione e, per molti versi, direttiva. La ripresa cinematografica, quindi, non soltanto possiede la funzione di registrazione utile per la seconda fase del briefing e dell’analisi da parte del gruppo, ma inerisce a un diverso modello di funzionamento dello stesso, che è insieme soggetto osservante ed osservato; funzionamento meno affidato ad un concetto di catarsi del tipo “evacuativo”, prestandosi a sollecitare quella distanza “estetica” dal conflitto che è richiesta e la fase di visione sollecita maggiormante. Osserviamo che, in tale situazione, il gruppo, gli attori, il regista sanno di essere “osservati” e registrati” e questo dato, con il tempo, viene a perdere il significato di elemento di disturbo, a vantaggio di uno stimolo alla ricerca introspettiva maggiore: una specie di gancio conscio-inconscio che sollecita l’emergenza dei contenuti inconsci, piuttosto che distrarre, come apparentemente si potrebbe supporre. Questa consapevolezza, infatti, crea reazioni di continuo di controllo e perdita di esso, nella paradossale ricerca del proprio spazio privato spontaneo ed autentico. La macchina da presa è comandata dal Director o anche da uno dei partecipanti e compie riprese che hanno il duplice scopo di sollecitare ed esplorare attraverso ottiche differenti (chi riprende) la stessa scena.
Un esempio può aiutarci a comprendere meglio. Consideriamo il fattore 'resilienza' nel contesto dello stress che il “drama” sta esprimendo in una data situazione performativa del setting drammaterapico. Nel caso della cinema-dramaterapia, il gruppo degli attori non si confronterà più soltanto con la vicenda rappresentata, ma sarà disponibile un tempo supplementare di rielaborazione e significazione più analitica di quanto avvenuto (sulla falsa riga dello statuto operativo della micropsicanalisi). E’ così intuibile come la cine-drama-terapia colleghi elementi del teatro con quelli del cinema: il soggetto, mentre gioca la sua parte, è solo apparentemente 'distratto' da propria 'narrazione esterna' e, piuttosto, finisce per offrire quasi sempre una massiccia proiezione di se stesso sulla scena. Questo accade grazie al lavoro dramaterapeutico svolto precedentemente, nell’apprendimento della parte e nella interpretazione del personaggio. La scena finale registrata può poi essere ri-analizzata ed elaborata all'interno del gruppo, proprio come accade nella cinema therapy, nel confronto tra quanto esperito ed ora ri-visto. E’ qui l’attore che esercita un ascolto finalmente responsabile della propria “azione scenica”, ovvero attraverso una nuova consapevolezza.
Dobbiamo ritenere che quanto Winnicot indica al terapeuta come strada verso l’autenticità” dell’essere, quando afferma “Il medico che ha paura della verità deve imboccare un'altra professione (D.W. Winnicott), debba essere assunto e condiviso anche dal paziente.
Crediamo, tuttavia, che la coscienza dell’individuo sia una funzione evidentemente dinamica e complessa, che non può essere ridotta all’esercizio noetico e dunque all’insight. Essa alberga in in corpo mentalizzato, così come la nostra mente è anche fondamentalmente corpo, sensazione, emozione, dunque azione. Nella dramma terapia ed anche nell’uso del mezzo cinematografico ritroviamo questa interezza di sollecitazione.
"Spensi all’uomo la vista della morte, poi lo feci partecipe del fuoco", così Eschilo descrive i due doni che Prometeo ha dato all’Uomo: la speranza che non vede (la morte) il dono del fuoco che, come interpreta Platone è il saper tecnico(conoscenza) e il saper fare (capacità operativa) per cui la tecnica e i suoi progressi sarebbero basati sull’illusione dell’immortalità.

lunedì 24 gennaio 2011

CINEMA-DRAMATERAPIA SEMINARIO: Una Camera a Guado nello Stagno


Roma, 3 febbraio 2011

L’ottica di una camera che riprende sopra e sotto la superficie del guado. Per metà Ranocchio e metà Principe, l’interprete-personaggio è condotto dentro la pellicola a rivisitare i propri gesti ed abiti, mentre continua a lavorare il processo dramma-terapico: cinema-dramaterapia.
Il Seminario sarà preceduto dalla Presentazione del Volume


"Costruire lo Sguardo"

di Plinio Perilli, Ed. Mancosu, Mi.2009

Performance Introduttiva

Nina Maroccolo

vai al COMUNICATO STAMPA
prenotati info.atelier@dramatherapy.it

lunedì 25 ottobre 2010

Cinema Alchemy: Using the Power of Movies for Healing and Transformation by Birgit Wolz.

Un interessante Workshop di Cinematherapy sarà tenuto dal 20 al 25 febbraio 2001 presso il Esalen Institute, Big Sur, California. Brigit Wolf ci informa che si tratta di un workshop esperenziale...
Inquiries into our emotional responses to movies open a window to our soul. How we relate to a film's archetypal motifs reveals our inner life. Together we build a bridge between our realizations in "reel" life and our experiences in real life. Watching films with conscious awareness makes us recognize aspects of our shadow self, and help us find our authentic self and essence.
Potete trovare la completa descrizione del seminario a questo link.
Registrazione: 831-667-3005 o mailto:info@esalen.org
Buona Fortuna per il tuo Workshop, cara Birgit!. Noi continuiamo a seguire le linee guida del tuo lavoro. Cinema-dramaterapia Team (listed in Cinematherapy.com Professional Directory)

domenica 3 ottobre 2010

Cinema, Cinema-forum, Cinematherapy: come vediamo i film oggi

@ M. Pina Egidi, E. Gioacchini

Il cinema e tutto quanto gira intorno alla sua costruzione sono oggi in una accellerata evoluzione che promuove nuove riflessioni. La sua nuova dimensione tecnologica, le modalità di fruizione sono profondamente cambiate. Arte cinematografica e prodotto on demand per un identico spettatore?

Chiedete a chi è nato prima degli anni ottanta di raccontarvi un film visto ai tempi in cui era studente, sposina, militari di leva e -sette volte su dieci- vi parlerà non solo della pellicola, ma anche della circostanza in cui l'hanno vista. Vi descriverà la sala o la piazza dove è stato proiettato, rievocherà la serata, le emozioni, nominerà le persone che erano con ui, saprà indicare, se non la data esatta, almeno la stagione dell'anno di quell’evento. Insomma, vi descriverà una storia –il film- dentro a un'altra storia -la sua-, magari distorta dalla nostalgia, incompleta e, se non reale, almeno realistica, dove le emozioni del momento vissuto si mescoleranno a quelle rievocate dal ricordo del film.
Sagre patronali, quando la gente si recava in arene improvvisate sulla piazza di paesini, portando con sé la sedia da casa e tutta la comunità partecipava all'evento, con commenti estemporanei e battute lanciate dal fondo, condividendo e enfatizzando emozioni collettive. Domeniche pomeriggio di uscita coniugale, con il vestito buono, ritualizzate come la messa grande delle undici e l'aperitivo nei tavoli all'aperto di un bar. Il gruppo di amici riuunito, nelle sale di seconda visione, a sghignazzare sul film scollacciato negli anni settanta. Educazione (o diseducazione) sentimentale collettiva iniziata, nei pomeriggi dopo la scuola, davanti a “Il Tempo delle Mele” e “Laguna Blu” nei primi anni ottanta.

Il valore aggregativo del cinema e il suo ruolo di formazione, celebrato in molte scene da “Nuovo Cinema Paradiso”, è andato perduto? A una prima analisi, forse sì, se si pensa, ad esempio, alla fruizione dei cinema multisala, nei contesti urbani. Il “cinemino” sotto casa, o la sala di seconda visione per assistere a proiezioni in totale relax con gli amici sembra un ricordo lontano. E’ della stessa idea Emanuele Protano, critico cinematografico di Point Blank (http://www.pointblank.it/), come ci evidenziava in un nostro incontro non molto tempo fa: Il cinema ha perso il suo valore aggregativo......Oggi il cinema è più un discorso individualista: è ancora un aggregatore numerico, ma non esperienziale. La gente va in massa al cinema, ma non ci va in quanto “massa”, ma in quanto migliaia di unità. Questo mi pare facilmente comprensibile e constatabile da ognuno di noi. Se il cinema è ancora aggregativo (il che è tutto da dimostrare) allora lo è in maniera post-esperienziale, ovvero composto da gente che DOPO il film se ne ritrova a parlarne in maniera così disinteressata, la maggior parte delle volte…”. La stessa maggiore diffusione di “pellicole” (possiamo ancora chiamarle così?) attraverso le reti web permette la fruizione del prodotto cinematografico in una dimensione “solitaria”, che quindi spesso viene a privarsi dell’elemento di discussione sociale su di essa.

D’altra parte, la trasformazione digitale del cinema che è in atto, con l’utilizzo sempre maggiore di una tecnologia tesa all’effetto, sia nel senso del realismo (vedi 3D), sia di superamento fantastico di questo, comporta tendenzialmente un irretimento dell’attenzione dello spettatore su aspetti che sono più formali, appunto spettacolari, con un conseguente disinteresse per la validità della “storia”; questa dinamica è maggiormente osservabile nelle fasce più giovani del pubblico. Già nel 1996, a proposito di media e televisione, il sociologo francese Jean Badudrillard (Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? Cortina Raffaello Ed. 1996) definiva il furto della realtà -la tendenza della realtà a sparire davanti ai nostri occhi- “il crimine perfetto”; infatti la mente moderna, tecnologizzata, non si limiterebbe ad accettare la realtà virtuale, ma arriverebbe a preferirla. Riguardo quest’ultimo aspetto, desideriamo sottolineare che, ad esempio, l’iperspazio virtuale di un film si presta a immedesimazioni in termini di virtualità sonora e visiva, che si prospetta possa diventare sempre più multisensoriale, che vanno oltre quella squisita qualità che da sempre ha avuto il cinema, cioè la capacità di “mentire” attribuita alle sue immagini ed al loro uso artistico, e questo non è riducibile solo in termini di stimolazione percettivo-emozionale. Quello che si immagina possa avvenire è il passaggio del cinema e della narrativa da luogo di fruizione di “visioni” a quello di “vissuti”. trasmettere L’elemento di mediazione tra la realtà e l’uomo non può essere costituito prevalentemente da un apparato fisico, così come il nostro pensiero ha bisogno del dubbio, funzione categoriale diversa dalla stima statistica. A tale proposito, può essere utile ricordare come Freud, alla lusinga offerta dai Surrealisti alla sua psicanalisi, quando celebravano l’arte come espressione diretta dell’inconscio, opponeva invece uno sdegno, perché egli pensava che tra il serbatoio delle nostre più profonde energie e l’espressione artistica esista una “velatura” che dà senso, un campo, dunque, indefinito e personale che non è riproducibile o semplicemente dicibile in termini di pulsione e percezione. E, se riflettiamo bene, sino a non molto tempo fa, il massimo prodotto eidetico della mente era costituito solo dall’arte. Oggi, il cinema non può essere schivo al fascino della tecnologia, ma certamente in esso questa non costituisce l’elemento da privilegiare. Si tratta di un problema alquanto datato e che riguarda in genere tutte le fore di arte. Anche per il cinema riteniamo tuttora valida la risposta di Bertold Brecht, secondo il quale, l'arte, in generale, non è uno specchio con cui riflettere la realtà, ma un martello con cui darle forma.

Quanto descritto certamente possiede un ruolo di distrazione dai messaggi più importanti che una pellicola può trasmettere. Non si vuole qui esprimere un giudizio sulla validità o meno di questo ruolo emergente, spesso solo ricreativo ed usa&getta del cinema e rischiare di cadere in valutazioni scorrette o superficiali; preferiamo invece indagare dove sia ancora presente la funzione aggregativa, educativa, esperienziale della fruizione del prodotto cinematografico.

Si è accennato poco sopra ai contesti urbani: senza dubbio, la nascita dei cinema multisala o di piccole cittadelle sviluppatesi intorno ad essi, dove si può cenare, fare shopping, incontrarsi –cioè fare altro, che non solo andare al cinema- risponde alle esigenze della grande città. E' molto più semplice trascorrere una serata in un sito ove tutti i componenti che costituiscono il momento di evasione sono raccolti in un unico sito, in maniera da offrire ogni servizio a portata di mano.In simili contesti, diventa limitativo dire che “si va al cinema”…

Senza mettere in discussione una tale modalità di fruizione, legata a logiche economiche, è tuttavia innegabile che tale contesto sia altamente dispersivo e che venga meno la condivisione dell'evento. In tali circostanze. È alto il rischia di perdere la memoria emotiva del film appena visto, perdendo così una delle più belle funzioni del cinema che gli appassionati conoscono bene.

Se si vuole ritrovare il sapore della condivisione vera e profonda del cinema, è nei cineforum che va cercata e, in particolare, in iniziative di tale genere che nascono in risposta a situazioni di criticità e di fragilità culturale. Cenacoli di discussione sul cinema e contesti dove quest’ultimo trova un uso dedicato alla terapia (cinematherapy) trovano d’altra parte sempre una maggiore diffusione nel nostro paese ed all’estero.

La provincia italiana, dove la vita quotidiana è fortemente condizionata dai ritmi e/o ai problemi dell'economia locale, offre, a parere di chi scrive, molti esempi di situazioni in cui si può ritrovare “l'antica” modalità di godimento del cinema, con il valore aggiunto che molte iniziative nascono spontaneamente “dal basso”, senza cioè interventi manageriali.La proiezione di pellicole di successo della stagione invernale, durante le sagre estive, è ad esempio ancora viva in molti piccoli centri del Lazio e, in alcuni casi, sono nate spontaneamente delle vere e proprie rassegne di grande qualità, curate da appassionati e cultori della materia locali.

Prendiamo degli esempi vicino alla capitale. Nel reatino, è attiva la rassegna dedicata a Fausto Tozzi , che si è strutturata in maniera sempre più professionale , ma senza perdere la caratteristica della fruizione di piazza e di animazione per il piccolo centro che la ospita.

A Itri, provincia di Latina, è attivo il CinemaBrigante, nato da un gruppo di giovani auto-organizzatisi, con l'obiettivo dichiarato di migliorare “la qualita della vita degli appartenenti alla comunità locale.” Il gruppo organizza il Cineforum permanente , attivo durante l'anno a seconda delle situazioni contingenti, che è caratterizzato da due elementi fondamentali e imprescindibili: 1) prima della visione del film in programmazione, tutti i partecipanti propongono o suggeriscono, sotto la guida del moderatore, eventuali pellicole da proiettare nella settimana successiva, anche illustrandone la trama; 2) i titoli proposti vengono votati democraticamente per alzata di mano e il film con maggiori consensi, ovviamente, è proiettato nella settimana successiva. La stagione del cineforum si sviluppa così, step by step, con una caratteristica di continuità conferita dalle decisioni collettive e condivise. In una situazione come quella appena descritta è evidente come venga a crearsi un evento altamente partecipato che risponde a molteplici necessità: il desiderio di stare insieme in modo diverso, di condividere identici percorsi di crescita nello scambio e di arricchimento personale, la reazione a sistemi e contesti di vita spesso avvertiti poco stimolanti.

mercoledì 2 giugno 2010

Cinematherapy: la Commedia all'italiana


Commedia all'italiana, ci chiediamo se i suoi contenuti possano interpretare spirito e costume di altri luoghi, vista la intensa caratterizzazione dei personaggi ed interpreti che l'hanno fatta, registi ed attori, personaggi e contesti. La domanda è retorica poichè la storia degli ultimi quarant'anni di cultura e cinema hanno ampiamente dimostrato che la nostra cara "commedia", quella specie di teatro nel cinema -mi piace immaginare-, ha coivolto nella visione spettatori di ogni latitudine.
Film come Totò Cerca Casa (1949) di Steno-Monicelli; Il Vedovo Allegro (1949), Totò Sceicco (1950) di Mario Mattoli; La Banda deli Onesti (1956) di Camillo Mastrocinque; Nata a Marzo (1957) di Antonio Pietrangeli; I Soliti Ignoti (1958), La Grande Guerra (1959), Risate Di Gioia (1960), I Compagni (1963) e L'Armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli; Il Buono, Il Brutto E Il Cattivo (1966) di Sergio Leone...tanto per citarne solo alcuni.
Mario Monicelli, in un'intervista di Francesca Arceri, intitolata "Il (sor)riso amaro della commedia all’italiana", afferma: "...Sì, perché infatti ridono. Non solo in Italia, ridono i francesi, gli americani e i cinesi. Questi ultimi amano molto la commedia all’italiana, la doppiano anche. Dovreste sentire Totò parlare in cinese! Universale perché i sentimenti sono sempre quelli, non cambiano mai: né con i secoli né con i paesi".
Quel pregio speciale di far sorridere ed anche intensamente ridere su temi drammatici che si riferiscono alla "lotta" per la vita, nella giungla metropolitana o moderna di un civiltà che ha il coraggio di mostrare il suoi lati fragili, vulnerabili, non posside limiti culturali. Sospende la coscienza ed ha fatto di quelle pellicole poesie agresti e cittadine, scardinando per un poco i limiti "severi" e rigorosi tra il bene ed il male, il brutto ed bello, il buono ed il cattivo. E' il pregio della umanità e della creatività che sanno usare l'ironia, tentando una dissacrante anatomia dell'uomo, per restituirlo agli affetti della comunità, che fosse la famiglia, il gruppo, la banda, la strada. Lezione di alta arte che certamente si presta ad essere utilizzata in cinematherapy per queste stesse motivazioni,e che fonisce un ampio ventaglio di situazioni e motivi.

CONFERENZA-LABORATORIO: Dentro la Pellicola, Cinematherapy e Cinema-dramaterapia

 venerdì 11 giugno (h.20,30)

Conferenza e laboratorio sulla Cinema Therapy tenuti da E. Gioacchini e M. P. Egidi, Atelier di Drammaterapia per le Risorse -Roma (riferimento scientifico, Cinema Therapy di Brigit Wolz).
Dopo un veloce primo tempo, che darà codice e legenda per la lettura del laboratorio successivo, i partecipanti sono condotti dentro la pellicola e rivisitare con i propri gesti ed abiti la proiezione di stralci cinematografici che raccontano la storia di tutti e una macchina con un’ottica specifica a riprenderla. Invito gratuito rivolto ad addetti ai lavori e professionisti del settore, oltre che al pubblico.

Info e prenotazioni: Cell. 340-3448785 o scrivendo a cinematerapia@yahoo.it


Poster: Fotolia_7341268_S, ktsdesign - Fotolia.com

Cinema-Dramaterapia, la Commedia Italiana: Il coraggio, se uno non ce l'ha, non se lo può dare

La commedia all’italiana, attraverso le interpretazioni dei grandi "mostri sacri", ci ha fornito una galleria di personaggi ritratti impietosamente nelle loro meschinità e nella loro ristrettezza di vedute, di interessi, di atteggiamenti. Personaggi non proprio esemplari o encomiabili, ma descritti e interpretati con tale maestria che, attraverso i moti del cuore, sono entrati nella memoria collettiva, nonostante si tratti di ladruncoli, arruffoni, imbroglioni, illetterati, sciovinisti, dongiovanni da strapazzo e via dicendo. L’avarizia, la fame cronica, le piccole astuzie sono quelle di Pantalone, di Pulcinella, di Arlecchino, ma non basta a riscattarli la gloriosa eredità diretta delle maschere della Commedia dell’Arte, poiché le loro deficienze etiche sono profonde, anche se giustificate dalle circostanze storiche (la guerra, la ricostruzione) o culturali (la borgata, la provincia) entro cui si muove la trama.
Eppure, ritengo che, se volessimo rinvenire nel cinema il prototipo del “grande eroe”, lo dovremmo ricercare proprio tra i personaggi della Commedia all’italiana (si parla della commedia di autore, beninteso). No, non aspettiamoci di rinvenire tra i personaggi secondari un coraggioso giovane, dai capelli biondi mossi dal vento che fa da controparte alla macchietta protagonista. Gli eroi veri sono proprio loro: i personaggi di Fabrizi, Gassman, Sordi, (nomi che solo a scriverli, tremano i polsi), il romano sbruffone e pavido, il pacioso uomo di mezza età, il pugile suonato e la nuova maschera, il grande Totò, solo per citarne alcuni.
Niente Rambo, nè Indiana Jones, niente muscoli d’acciaio o nervi saldi, niente sprezzo del pericolo. Qui si parla di altro. Il coraggio, se uno non ce l'ha, non se lo può dare”, diceva Don Abbondio. Ma è veramente così? Non voglio contraddire Manzoni che , tra l’altro, non esprime con questa frase il proprio pensiero bensì una riflessione coerente con il carattere del suo personaggio (non a caso, interpretato proprio da Alberto Sordi, nell’ultima rivisitazione televisiva de “I Promessi Sposi”.


 La vita personale insegna a tanti che coraggio ed eroismo possono essere pane quotidiano; come vogliamo chiamare , altrimenti, quella forza silenziosa e costante che ci fa sopportare i disagi, i malesseri e i problemi? Siamo forse meno eroi di un condottiero nella battaglia, quando affrontiamo o decidiamo i cambiamenti? Il mondo è pieno di eroi silenziosi che non sanno di esserlo. E allora, la tradizione della Commedia all’italiana, ci mostra questo afflato alla grandezza, al beau geste che è presente anche nelle coscienze più vili. Ritengo, senza dover fare ricorso ai numerosi riferimenti bibliografici di settore, che il coraggio, sia esso il colpo di reni o le piccole dosi di eroismo quotidiano, siano patrimonio evolutivo della specie umana. Ci è voluto fegato a lasciare la comoda vita sugli alberi e la dieta frugivora per passare alla stazione eretta e alla conquista di nuove nicchie.

Spesso, in molte pellicole, l’atto di eroismo arriva alla fine, ed è inatteso, drammatico, capace di sovvertire il tono della trama. Vogliamo ricordare il finale de “La Grande Guerra”, che proprio commedia leggera non è, dove il romano Oreste Jacovacci ed il milanese Giovanni Busacca, dopo essere sopravvissuti con piccoli mezzi ai pericoli del fronte, muoiono fucilati per non farsi umiliare dal disprezzo dell’ufficiale dell’esercito asburgico.
Oppure Alberto Sordi che ritrova amore e dignità, gettando nella piscina con un sonoro ceffone l’uomo politico di cui ha accettato di diventare portaborse perché stufo di una “Vita Difficile”.
E infine la scena più bella, più grandiosa. L’unica parolaccia pronunciata da Totò in un suo film, una frase che, nella circostanza del film e detta da un vero principe, supera il più nobile squillo di tromba.Guardiamo quell’eroismo che tracima, che irrompe, che DEVE rivelarsi e a poco a poco rompe la scorza di miseria morale da cui è avvolto il colonnello dell’esercito italiano, interpretato da Totò. Osserviamo gli sguardi dei soldati italiani, schierati in attesa della decisione del loro ufficiale: non vi sembra di vedere la certezza, la fiducia che il momento del riscatto morale, proprio e del loro ufficiale, sta arrivando inesorabile?

E non vi viene voglia di unirvi alla catarsi di quei personaggi meschini che ci hanno fatto vedere una guerra di occupazione, fatta di miserie, inciuci e piccole prepotenze, senza valori né ideali? Fosse pure una catarsi riassunta dal gesto così italiano, partenopeo, da “tarallucci e vino” di Nino Taranto sullo sfondo, ma così naturale e quotidiana.

Tutto è qui, in questa scena de “I due Colonnelli".
Tutto il resto è silenzio”, Amleto, W. Shakespeare.

martedì 27 aprile 2010

CINEMATHERAPY “Le rughe non coprirle che ci ho messo una vita a farmele venire”

@ Maria Pina



Le rughe non coprirle che ci ho messo una vita a farmele venire”. Così rispose la grande Anna Magnani  al suo truccatore. Le grandi attrici, soprattutto le attrici di teatro, sanno che la maturità apre nuove porte all'interpretazione e offre nuovi ruoli con cui confrontarsi: guai quindi a mantenere inalterato l’aspetto fisico, senza lasciare che il passare degli anni faccia emergere sul volto e sul corpo le esperienze vissute.
Ma oggi bellezza e gioventù sono un diktat indiscutibile per tutti, uomini e donne.Bellezza e gioventù che si traducono in una lotta spietata, sfibrante a ogni segnale che faccia discostare l’immagine individuale dall’aspetto che si aveva a venticinque anni.Pelle di porcellana, capelli di seta, corpo tonico e magro non sono richiesti solo a chi svolge un’attività legata all’uso della propria immagine, ma sono vissuti come una necessità imperativa in ogni aspetto relazionale della vita quotidiana. E per ogni segno dell’età esiste un rimedio, persino per ritoccare i primi afflosciamenti delle ginocchia femminili (Demi Moore docet).
Chi scrive, donna in corsa vertiginosa verso la terza età, non sfugge a questi condizionamenti e ciò sia detto per fugare ogni possibile dubbio sulla buona fede di questo intervento. La propria faccia allo specchio di prima mattina, così come l’approssimarsi della prova bikini, provocano sudori freddi anche negli animi più saldi, e non credo di sbagliare in questa valutazione. Tuttavia, qui non si vuole parlare delle legittime e dovute cure alla propria salute/bellezza, né si vuole stigmatizzare la vanità personale che presenta risvolti positivi quando si traduce in buon gusto nel vestire, in rispetto per sé stessi e per la vita sociale, quando diventa espressione di creatività e benessere interiore.
Si vogliono affrontare i risvolti patologici della risposta individuale delle pressioni esterne che vogliono vincenti solo i “giovani-belli-magri”.
La diffusione di disturbi alimentari (bulimia, anoressia) o la paura dei cambiamenti del fisico (dismorfofobia) non è disgiunta dai condizionamenti esterni dovuti all’affermazione di un modello individuale che esclude l’imperfezione e il cambiamento.
Non si può nascondere che spesso anche il cinema ha contribuito a far affermare un modello di donna (e di uomo) perfetto sotto questo punto di vista; ma, per ogni cinepanettone che celebra la divetta del momento, esiste un film di spessore, comico o drammatico, dove Susan Sarandon  e Meryl Streep  mostrano la loro gloria di dive mature.
Per rimanere in ambito italiano, si pensi a Stefania Sandrelli e alla sua quarantennale/cinquantennale carriera.
Attrice ventenne, è il fulcro di pellicole della migliore commedia all’italiana: come non solidarizzare con Marcello Mastroianni che si arrovella per uscire dal suo stanco matrimonio e sposare la sua dolce e inarrivabile cugina?
E chi non si sente di dare dello stupido a Peppino, che rifiuta Agnese perché non più pura in “Sedotta e abbandonata”? 
A trentacinque anni, una Sandrelli dal corpo ammorbidito dall’età fa sognare gli adolescenti che vagheggiano la sapienza e l’erotismo rassicurante della mezza età nel film “La Chiave”. Oggi Stefania Sandrelli ha circa 65 anni; onestamente non so se il chirurgo estetico abbia mai toccato il suo volto, ma di sicuro non segue diete.
Recentemente sullo schermo ha interpretato il ruolo della madre in “La prima cosa bella” di Paolo Virzì: un ruolo difficilissimo -da cui il binomio bellezza-gioventù è escluso- e cioè quello di una donna in età, ormai malata terminale di cui viene ricostruita la vita fuori dagli schemi condotta nel passato. A interpretare il ruolo di lei da giovane è chiamata Micaela Ramazzotti, bellissima, incantevole, in quanto la bellezza della protagonista è elemento essenziale dello sviluppo della trama.
Ma guardiamo le ultime dolorose immagini del film: un impietoso primissimo piano è fissato sul volto della Sandrelli e lo spettatore si perde negli occhi dell’attrice, è rapito dalla dolcezza della sua voce e delle sue parole, ne segue le pieghe del suo sorriso. Occhi, voce, sorriso: sono questi i veicoli della bellezza che nasce dalla accettazione di sé e della propria storia, conquista per alcuni e consapevolezza istintiva per altri, a dimostrazione che il tempo non distrugge, ma trasforma l’avvenenza giovanile nel più duraturo fascino.

giovedì 1 aprile 2010

AVATAR, tra spettacolo ed ecologia...

@ Maria Pina

Sebbene la letteratura del cinema riporti come primo esempio di fantascienza “Viaggio nella Luna” di Georges Mélies, del 1902, tuttavia solo negli anni cinquanta il genere si afferma con le connotazioni che oggi gli riconosciamo, vale a dire l’ispirazione scientifica alla base della storia narrata. Astronomia, fisica, tecnologia spaziale, biologia, informatica, chimica, cibernetica, ecologia foniscono i presupposti su cui si innescano anche altre discipline, non ultime la storia e l’archeologia. Ambientazioni affascinanti e a volte visionarie, effetti speciali sempre più arditi, l’utilizzo integrato di mezzi e strumenti aggiuntivi in grado di aumentare la suggestione e il coinvolgimento dello spettatore: questi sono progressivamente diventati gli ingredienti sempre più indispensabili alla science fiction.


Il cinema di fantascienza è un genere sempre più controverso e ambiguo: a questo filone appartengono pellicole di estrema povertà, come anche opere tra le più impegnate e di spessore della storia del cinema. Si pensi a un cult del genere come “2001: Odissea nello spazio”; ci siamo lasciati alle spalle l’inizio del millennio e i viaggi sulla luna al suono de “Il Bel Danubio Blu”: essi non fanno parte della prassi quotidiana, ma quanta verità profetica nella supremazia del computer sulla gestione delle attività umane!
“Se qualcuno ha capito qualcosa, ciò significa che io ho sbagliato tutto”, ebbe a dire Stanley Kubrick, il regista e chi scrive ricorda ancora interminabili discussioni tra amici cinefili sulla corretta interpretazione della storia narrata.
Sebbene la letteratura di fantascienza si sia storicamente strutturata ed evoluta molto prima del corrispondente genere cinematografico, quest’ultimo ha colmato il gap temporale e ormai ha raggiunto, dagli anni cinquanta in poi (inizio storico della science fiction), un altissimo livello di ricercatezza mentre continua a sperimentare soluzioni sempre più ardite. Una semplice comparazione mentale tra qualche titolo degli ultimi cinque anni e il recentissimo “Avatar” basta per dimostrare la rapidità di evoluzione di questo genere cinematografico. Vincitore di tre premi Oscar nel 2010 (migliore fotografia, migliore scenografia e migliori effetti speciali), “Avatar” è il film evento della presente stagione cinematografica. L’opera è un riuscito mix di trama avventurosa e di effetti speciali, ma contiene anche molti spunti di riflessione sulle tematiche ecologiche e sui meccanismi politici ed economici dello sfruttamento delle risorse ambientali. Non soltanto evasione e meraviglia , non soltanto intrattenimento, quindi, dalla fantascienza, ma anche interrogativi e riflessioni, a volte persino implicazioni etiche che permangono nello spettatore.
E quale effetto può produrre nella sfera emozionale e comportamentale? Si ipotizza qui un’analisi che può ben applicarsi anche alle situazioni più estreme e fantasiose della science fiction. Per godere la rappresentazione in cui il mondo conosciuto è sovvertito nei suoi strumenti e nelle sue relazioni, si debbono dimenticare schemi logici, esperienze acquisite, abitudini mentali. Bisogna accettare, per esempio, che esistano creature diverse che vengono da altri mondi, con altre culture e altri valori (lezione non da poco per contrastare razzismo e latente). Di certo la visione di un film di fantascienza non permette l’esercizio di creatività dal testo scritto in cui si lascia al lettore la possibilità di visualizzare, con la sua immaginazione, un cielo con tre lune o un mondo dove bambini di seconda elementare progettano il loro edificio scolastico. Tuttavia l’accettazione di una realtà diversa da quella che l’esperienza quotidiana e la propria interpretazione del mondo, presupposto necessario della visione di un film come “Avatar”, rappresenta uno spunto non sottovalutabile per spingere lo spettatore a chiedersi se esista “altro da qui”, uno stimolo a conoscere mondi “alieni”, nel senso di estranei, non ancora esplorati.
Mi permetto la possibilità di esprimere una sottile soddisfazione da “scienziato” sulla fantascienza, sia letteraria che cinematografica: questo genere mostra come le scienze esatte, per molti sinonimo di aridità e schematicità di pensiero, permettano un largo esercizio di poesia e di creatività.
C’è un famoso racconto, “Omnilingue”, in cui la chiave per comprendere la lingua dell’antica civiltà marziana è la tavola periodica degli elementi, in quanto l’idrogeno è sempre idrogeno, sulla Terra come su Marte. Una bella lezione di dialogo interculturale, che fa cadere il pregiudizio fantascienza=evasione.

Schede Film:
TITOLO ORIGINALE: Le voyage dans la Lune TITOLO ORIGINALE: AVATAR
REGIA:Georges Méliès
SCENEGGIATURA: Georges Méliès 
Attori: Victor André: Luna (faccia); Bleuette Bernon: Ragazza sulla Luna; Victor André; Brunnet: Astronomo;
Depierre: Astronomo; Farjaux: Astronomo; Kelm: Astronomo; Georges Méliès: Professor Barbenfouillis; Jeanne d'Alcy; Henri Delannoy: Capitano; Ballerine del corpo di ballo dello Châtelet ; Acrobati delle Folies-Bergère: Seleniti
Paese: Francia
Anno: 1902
Durata: 14 min
Colore: B/N
Audio: muto
Genere: fantascienza, parodia
Soggetto: Jules Verne, H. G. Wells

TITOLO ORIGINALE: Avatar
REGIA: Jay Chandrasekhar
SCENEGGIATURA: Jay Chandrasekhar, Jonathan Davis, Kevin Heffernan, Steve Lemme, O'Brien John, Paul Soter, Erik Stolhanske
ATTORI: Seann William Scott, Johnny Knoxville, Jessica Simpson, Burt Reynolds, Willie Nelson, MC Gainey, Michael Weston, David Koechner, Lynda Carter, Nikki Griffin, Maxwell Jacqui, Carol Dupuy, Louis Dupuy, Brian Edwards, Charlie Finn, Franchi Larry , Gadison Tobi Brown, Hendershot Casey, Alicen Holden, Jaderlund Henry
FOTOGRAFIA: Lawrence Sher
MONTAGGIO: Haxall Lee
MUSICHE: Nathan Barr
PRODUZIONE: Le Immagini Gerber, Warner Bros. Pictures
DISTRIBUZIONE: Warner Bros. Pictures
PAESE: USA 2005
Genere: Azione
DURATA: 106 min
Formato: Colore
USCITA CINEMA: 02/09/2005

sabato 20 marzo 2010

Cinematherapy & Drammaterapia, un nuovo Corso ad Aprile a Roma


Anche un modulo di cinematherapy, secondo la lezione americana di Brigit Wolz, all'interno del nuovo corso di Drammaterapia per le Risorse in partenza il 9 aprile a Roma. La sponsorizzazione scientifica è dall'Atelier di Drammaterapia Liberamente sotto l'egida della Società It. di Ipnosi Sperimentale, Clinica ed Applicata e dell' Istituto Scuola Romana Rorschach.
Momento didattico all'interno dell'Atelier
all'interno di una piece drammaterapica,
dicembre 2007
Il Corso, diretto dallo psichiata e psicoterapeuta romano E. Gioacchini, si articolerà in seminari, conferenze e laboratori serali (al venerdì), con l'intervento di docenti provenineti dall'ambito psicologico e dello spettacolo. La metodologia si riferisce all’utilizzo della drammaterapia come metodo che permette ai partecipanti l’espressione creativa del proprio “processo artistico”, attraverso una vasta gamma di strumenti quali la recitazione, l’hypnodrama, lo storytelling, la musica, il gioco, la tecnica del mimo, il movimento e la danza. I partecipanti saranno guidati alla sperimentazione ed elaborazione personale del linguaggio teatrale, che passa sia attraverso la riscoperta di sé, del corpo e delle sue possibilità espressive, che la riformulazione di un nuovo rapporto con l’esterno -lo spazio, gli oggetti e gli altri.
In particolare, il modulo di cinematerapia sarà tenuto dal dott. E. Gioacchini e dalla dott.ssa Maria Pina Egidi. Il primo incontro è fissato per venerdì 9 aprile (h. 20,00). Iscrizioni a numero chiuso.
INFO Per informazioni ed iscrizioni ci si può rivolgere alla segreteria del CDIOT al Tel 335-8381627 - Fax: 06-86211363/70. E.mail, info.atelier@dramatherapy.it
 
Foto: Teatri di Roma, Il Colosseo, di C. Gioacchini