Plinio Perilli durante la conferenza introduttiva alla piece drammaterapica "Il Fissatigre" di E. Gioacchini, 2007 |
@ P. Perilli
Che il Cinema, per la sua stessa natura, rituale e implosa, di piccolo-grande scenario o spettacolo di Psiche, sia dotato o possa essere comunque utilizzato, sollecitato per le sue forti virtù affabulanti, catartiche e dunque terapiche, apparve chiaro fin dai suoi primordi. E se le gags rutilanti delle prime comiche di Cretinetti e Max Linder, l’immenso Charlot, perfido e melanconico, lo stesso “lunare” Buster Keaton, i metafisici fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy… lenivano i traumi storici o esistenziali del primo approccio e ingresso nella Modernità (ma anche l’inferno della Grande Guerra, il purgatorio del dopoguerra), i grandi romanzieri per immagini carezzavano per virtù d’intreccio, dramma risolto, vicissitudine salvifica, la voglia e forza di progresso che l’Europa e il Mondo tutto chiedevano in fondo a ‘900.
Ma anche qui, c’è misura e misura. Ci furono insomma registi che restarono alla superficie dei problemi e dell’anima, ed altri che invece si tuffarono a picco fin dentro ai gangli del dissidio (sociale), del malessere (individuale) – insomma di quella che già Herr Nietzsche battezzava “la malattia chiamata uomo”…
Così Tempi moderni (1936), tanto per dire, non fu solo la parodia ma anche il lenimento scanzonato e insinuante contro le tare e le accelerazioni del fordismo industriale, e insomma dell’alienazione accelerata del nuovo mondo del lavoro…
Per virtù doppiamene artistica, gli autori devoti al surrealismo (Luis Buñuel su tutti) giunsero a lidi e plaghe dello spirito annodate e misteriche: corroboranti d’eccezione, diciamolo, per la macchina Cinema –sempre del resto alle prese con le più insondabili potenzialità dei “generi”… Si pensi al gran lavoro che un regista come Hitchcock ha svolto sui reconditi ardimenti o stordimenti di psiche… Veri e propri classici come Io ti salverò (1945) o Vertigo – La donna che visse due volte (1958), ne danno ampiamente conto. Non a caso la notissima sequenza del sogno che perseguita Gregory Peck – in Io ti salverò – fu “disegnata” da Salvator Dalì… Quando poi la Decima Musa trovò altri veri e propri geni come Bergman, Welles, e poi Kubrick – non poté più esserci alcun dubbio: il Cinema celava e proteggeva in sé una fortissima carica psicoterapica, immaginifica, di puro e sano transfert in nome di ogni pur bieco dramma da disciogliere, di ogni ennesima, commedia da rappresentare, e in cui forse addirittura poter noi stessi entrare…
Entrare, entrarci – entrar direttamente dentro allo schermo e a quelle stesse storie, come ci induce a fare in fondo l’esilarante, autocritico Woody Allen con la sue farse serissime e insieme scanzonate (Io e Annie, 1977; Manhattan, 1979; soprattutto, La rosa purpurea del Cairo, 1985)…
Da noi, intanto, Totò e Peppino, in qualche modo perfino Sordi e Manfredi, Tognazzi e Gassmann e tutti gli altri moschettieri della cosiddetta “commedia all’italiana”, facevano un gran lavoro se non altro sull’inconscio collettivo –per non dire sulle tare (talvolta anche sui pregi!) del “costume”…
Ma i gran registi delle contraddizioni, del malessere –della terapia dell’Io verso l’incomunicabile, spesso inaccettabile Altro da sé) furono Fellini e Antonioni– diversissimi ma anche assimilabili. La dolce vita e Otto e mezzo, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso… furono film che, in pieni anni ’60, raccontarono meglio dei sociologi o degli scienziati di psiche il travaglio di una società consumistica che col benessere del consumismo inoculava però, assieme, anche i veleni, lo stress, mille ansie indicibili.
Restiamo al fermento italiano: una nuova generazione (allora, di baldi giovani!), quella dei Marco Bellocchio e dei Bernardo Bertolucci –affidò al cinema certo un ruolo privilegiato, nella grande rivolta sociale (ma soprattutto psicologica, introiettata) succeduta e sospinta dal ’68… E anche qui, film come I pugni in tasca, Il conformista, Ultimo tango a Parigi, ebbero grandi meriti di sincerità e denudamento doveroso.
Restiamo al fermento italiano: una nuova generazione (allora, di baldi giovani!), quella dei Marco Bellocchio e dei Bernardo Bertolucci –affidò al cinema certo un ruolo privilegiato, nella grande rivolta sociale (ma soprattutto psicologica, introiettata) succeduta e sospinta dal ’68… E anche qui, film come I pugni in tasca, Il conformista, Ultimo tango a Parigi, ebbero grandi meriti di sincerità e denudamento doveroso.
Pier Paolo Pasolini, intanto, continuava il suo gran lavoro combinatorio tra immagine e poesia, protesta e denuncia… Ma –udite udite!– affidate all’arte. Titoli come La ricotta (1963), Uccellacci e uccellini (1966), Teorema (1968), lasciarono il segno.
E molti altri grandi numi tutelari continuavano a mettere in discussione –per fortuna– la nostra malcelata tranquillità o crisi d’ansia borghese, le nostre false sicurezze, le malattie meno diagnosticabili ma certo non meno infauste… Ingmar Bergman con –tra gli altri tanti capolavori – Il posto delle fragole, 1958; Sussurri e grida, 1972; Scene da un matrimonio, 1973; L’immagine allo specchio, 1976… Lo stesso Kurosawa migliore (quello ad esempio di Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure, 1970); Jacques Tati e il Playtime dell’alienazione (1967)…
Ad ogni generazione che sopravviene, il Cinema trova, gioca nuove chances di denudamento dell’Io, e cento approcci fantasiosamente psicoterapici: addirittura di laica, mimetica rappresentazione (come una volta fu per il teatro!) di tanto e tale malessere. Lo fece Wim Wenders con la sua Germania ancora piena di cicatrici e ferite storiche, insomma con gli angeli “umanati” de Il cielo sopra Berlino (1987)… Lo fece Pedro Almodóvar coi più belli dei suoi film – ed una Spagna che appena uscita dal franchismo e da una grigia dittatura anche della coscienza, ritrova desideri, fervori, perfino incubi nuovi: Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), Tutto su mia madre (2000), Parla con lei (2002)…
Con Quentin Tarantino –e il vizio/vezzo di un fin troppo statunitense, e più che estremo genere “splatter” –arriviamo all’ultimo gradino della discesa ad inferos di un moderno, modernissimo “male di vivere”… Una risultanza e una reazione violenta alla mera e cruda violenza che –per fortuna – sfocia come in un’autoparodia catartica, in un’accelerazione plasticata e giocata… Ed è in fondo proprio la tecnica (eventualmente la postmoderna contro-morale!) dell’accelerato genere “horror”… Le iene (1992), Pulp fiction (1994), restano per fortuna solo fiction… Più ce ne rendiamo conto, più le allontaniamo da noi, dal nostro habitat e dal nostro cuore…
Qualcosa da individuare e strappar via, come una neoplasìa, un tumore forse ancora benigno che la Società non può permettersi, né ammettere: se non proprio mettendolo in scena, calandolo e cauterizzandolo in Spettacolo, nel teatro perenne o subitaneo, trasparente o perfettamente calcato, sudato, dei nostri eventi d’esistenza: “Il Teatro: ecco la trappola” – fa dire Shakespeare ad Amleto – “in cui prenderò la coscienza del re”…
Nient’altro davvero è il buon Cinema che un inopinato, trasfigurante teatro per immagini. Terapia ed empatìa assolute, se lo spettatore/paziente vi si affida con la serenità di chi anche da fermo sa e vuole intraprendere dei lunghissimi viaggi interiori.
Testo consigliato: Plinio Perilli, Costruire lo Sguardo (Storia Sinestetica del Cinema in 40 grandi registi”), Gruppo Mancosu, Roma, 2009.
Testo consigliato: Plinio Perilli, Costruire lo Sguardo (Storia Sinestetica del Cinema in 40 grandi registi”), Gruppo Mancosu, Roma, 2009.
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