Visualizzazione post con etichetta vita cinematherapy cinema-dramatherapy cinema-drammaterapia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta vita cinematherapy cinema-dramatherapy cinema-drammaterapia. Mostra tutti i post

sabato 6 marzo 2010

Cinema Therapy : Camera con Vista


@ Maria Pina Egidi


"Spense la lampada. La luce non le permetteva di pensare, né di sentire. Smise di cercare di capire se stessa, e si unì alle vaste schiere di persone comuni, che non seguono né il cuore né il cervello e marciano verso il loro destino con degli slogan. Le schiere sono piene di gente simpatica e pia. Ma costoro hanno ceduto all'unico nemico che conti... il nemico che è dentro di noi. Hanno peccato contro la passione e la verità, e vana sarà la loro gara per inseguire la virtù. Come gli anni passeranno, saranno criticati. La loro cordialità e la loro pietà mostreranno delle crepe, il loro spirito diverrà cinismo, la loro generosità ipocrisia; sentiranno e cagioneranno inquietudine dovunque vadano. Hanno peccato contro Eros e contro Pallade Atena, e non per intervento celeste, ma seguendo il normale corso della natura, quelle divinità alleate saranno vendicate!
Camera con Vista, Edward Morgan Forster

Il peccato originale per gli scienziati e per chi ha deciso di vivere con le proprie forze l’avventura terrena è, come ho già scritto, andare contro le legge dell’eterno mutare delle cose.
L’energia, la materia, la natura, la specie umana, l’uomo, l’individuo con la sua coscienza, la società.. tutto cambia, si trasforma, è assodato, dimostrato dalle leggi della termodinamica, come dall’esperienza quotidiana.
Ma parlando, in termini “religiosi” se si pecca contro il divenire, c’è anche una punizione, o - per gli scienziati, - una conseguenza, anche essa legge di natura, quella dell’azione e reazione. Punizione e inferno in terra, quella del rimanere uguali a sé stessi, di non conoscere mai la bellezza di una maturità ricca con una mente e un’anima così piene di cose da ricordare e di emozioni da rinverdire che si sente il bisogno di donarle, di condividerle, di farle uscire a prendere aria per fare spazio a nuove cose da conoscere e da vivere
Quando, il giorno di uno dei miei compleanni più “critici”, mi guardai allo specchio per scrutare se il tempo aveva lasciato segni (come se questi spuntassero in una notte!), mi accorsi che la mia faccia era quella del giorno prima (le donne fanno di queste cose..) e non ne fui sollevata. Pensai “E se la mia faccia rimanesse sempre uguale, perché nessun sorriso profondo riuscirà a tracciare segni, perché il sole e il vento non potranno arrivare a colpirla, perchè né malattia né fatica lasceranno tracce? Che disastro e che noia sarebbe vedermi tutti i giorni sempre uguale…” Ovviamente il pensiero non era così limpido e articolato, né espresso con parole tanto solenni, c’era sempre la vanità femminile a fare da contraltare e solo ora so dargli il senso completo.
Ho appena terminato la lettura di “Camera con vista” e l’ho trovato stupendo. Vi si narra di Lucy, fanciulla inglese che scopre la differenza tra l’ascolto del buon senso e l’ascolto di sé.
Solo quando la protagonista smetterà di mentire a sé stessa e agli altri, quando riuscirà a capire che ogni scelta ha un prezzo da pagare, ma che occorre farla con coerenza e rispetto di sé, allora uscirà dalla schiera delle persone che hanno rifiutato l’evoluzione, sia essa guidata dalla ragione o dal sentimento (citazione nella citazione).
In questa frase che tanto mi ha colpito, c'è tutto l’orrore di una involuzione (non sempre il cambiamento è in meglio), descritta con poche frasi per mostrare che la rinuncia al proprio cambiamento non è senza conseguenze, non garantisce la tranquillità e la pace interiore. Come una nube tossica, come la muffa del pane, corrompe le doti più nobili, porta alla decadenza le migliori intenzioni.
Leggendo, mi sono tornati in mente i vestiti mai indossati perché troppo eleganti (sapete i completi che si comprano per un matrimonio o per una grande occasione?). Rimangono uguali nella forma ma sbiadiscono, ingialliscono, si impolverano, suscitano tristezza e sono un poco strani..., ma sono nostri.

Camera con Vista (Room vith View), di Edward Morgan ForsterFilmografia:

Movie:
Regia: James Ivory Sceneggiatura: Ruth Prawer Jhabvala Attori: Maggie Smith, Helena Bonham Carter, Julian Sands, Denholm Elliott, Simon Callow, Patrick Godfrey, Judi Dench, Rupert Graves, Fabia Drake, Daniel Day-Lewis, Joan Henley, Rosemary Leach, Maria Britneva Fotografia: Tony Pierce-Roberts Montaggio: Humphrey Dixon Musiche: Richard Robbins Produzione: GOLDCREST FILMS LTD., MERCHANT-IVORY PRODUCTIONS, NATIONAL FILM FINANCE CORPORATION, CURZON FILM DISTRIBUTORS, FILM FOUR INTERNATIONAL, MERCHANT-IVORY PRODUCTIONS DISTRIBUZIONE: BIM DISTRIBUZIONE (1986) - AUDIOVISIVIPAESE: Gran Bretagna 1985 Genere: Commedia, Romantico Durata: 115 Min Formato: Colore PANORAMICA
Soggetto: romanzo di E.M. Forster
Riconoscimenti: 3 Premi Oscar 1986: Migliore Sceneggiatura non originale, Migliore Scenografia, Migliori Costumi. Premio David 1987 per il Migliore Regista Straniero a Jameis Ivory

mercoledì 24 febbraio 2010

Cinema Therapy senza Cinema Therapy!

@ Ermanno Gioacchini

Un film può far bene, ha ragione Maria Pina, anche se non passa attraverso un setting di psicoterapia e mi riferisco a quel tipo di “estesa” cura che l’arte offre, come risorsa dell’individuo, all’anima.-per usare un codice caro ad Hilmann.

L’arte, fin dalle sue prime manifestazioni, si concreta in un “divino” tentativo di riproduzione della realtà, così come percepita ed interpretata dall'individuo; definisco divino il dialogo intimo, emozionale, dell’individuo primitivo con se stesso, quando sollecitato da uno stimolo esterno, in qualche modo “allucinatorio”, al di fuori di uno stato di consapevolezza cosciente (Julian Jaynes), come è proprio dell’espressione artistica da allora in poi. Un essere diventato troppo evoluto -che Jaynes, questa tappa, la dati tremila o alcune migliaia di anni prima- per dellegare solo agli istinti od al Dio il proprio adattamento alla realtà, comporta che ora la mediazione verso di essa avvenga attraverso l’espressione artistica, un processo che pesca nell’onirico e nello stato di coscienza modificato. La condizione un poco “folle” che attribuisce all’arte la qualità della follia da sempre. Una follia che torna contestualmente a curare il singolo e la collettività. Lo sciamano, se non è passato per una personale storia di follia, poi guarendo, non è tale e le sue rappresentazioni estatiche, i suoi "viaggi", costituiscono i primi teatri dell’antichità, prima di quelli greci e latini. Egli propone al gruppo riunito la propria “visone”, che solo l’assenza di un mezzo di ripresa cinematografico vieta di chiamare "film".

L'artista attraverso la propria opera, svela relazioni nascoste che superano i rapporti sensibili con la realtà ed anche il gioco mondano delle apparenze. Il quid, sempre specifico, che costituisce il suo genio, si mescola con una particolare forma di comunicazione che intendiamo come "rivelazione". Questa funzione, in alcuni casi, giunge ad essere profetica, anticipa il tempo che verrà, ma tuttavia è sempre strettamente collegata al reale, sul quale getta il ponte di nuove visioni.Il senso di ogni opera d'arte e, dentro di quella di qualunque atto che sia creativo, è inscritto nella dialettica invisibile con chi ne è spettatore. Ogni espressione artistica è figlia del suo tempo, erede del passato e profetica di quello dopo, mentre "discute" con i suoi contemporanei, li contraddice o li serve, condanna od esalta a seconda dei casi. In questo risiede la sua funzione "sciamanica". Questo dialogo a volte è conflittuale, in alcuni momenti si esprime attraverso il tormento dell' ispirazone dell'artista, nel dolore della ricerca, sul filo sottile tra genio e follia del medesimo, ma fondamentalmente appartiene ad ogni atto creativo. Anzi c'è Arte perché io posso riprodurla in me ed è prerogativa del suo invisibile rapporto con il collettivo il fatto che in questa operazione essa non si reifichi, diventando solo oggetto estetico. Il campo simbolico è, infatti, il luogo dove l'artista ed il suo atto creativo si incontrano con lo spettatore, perché la creatività, come si è già detto, è trasversalmente di tutti, geni, esecutori e passanti distratti.
La manifestazione artistica nasce, quindi, proprio da questo “incontro intelligente ed emotivo” con la spinta investigatrice verso la realtà; dove, su un piano più elementare e primitivo, la vita prima si difendeva senza la mediazione di una mente. Per questo, essa si sviluppa come pratica prima “confabulatoria”, come un sogno, una fuga psicotica e poi alleandosi a risorse ed abilità, in funzione “consolatoria”, appunto divinatoria che delega al “mito” la descrizione del passato ed alla “profezia” quella del presente e futuro. Qui il carattere assolutamente allegorico dell’arte e quanto essa produce. Ed è a questo punto, promettendo di conciliare, come “terra di mezzo”, la terra ed il cielo, di rompere la paura atavica dell’abbandono della morte, della “finitezza” scoperta con la coscienza, penetra nella realtà, tentacolare, come una piovra la pervade, articolandosi con il linguaggio che aiuta a creare, fino a celarsi a volte misconosciuta, dentro le sue strutture. Diventa un quadro in un museo, solo apparentemente capace di curare se si fa il biglietto, delirio di un folle sulla tela o su un’opera “maledetta”, percorso suggerito, mai obbligato, se non nelle accademie artistiche!

"La follia è, se vogliamo, una visione del mondo, che nel mondo non trova conferme. E ' un sentire tutto individuale, che associa immagini e spiegazioni, eventi e cause in un modo del tutto singolare, all'interno del quale è la significatività soggettiva ad avere la meglio sulle possibilità e opportunità reali. Follia è credere nel mondo così come lo si interpreta individualmente, credere in un proprio mondo nel quale le cose si associano secondo un ordine simbolico di significato tutto arbitrario e intessuto di elementi e odori dell'inconscio, dei sapori del desiderio, della consistenza delle paure più profonde e arcaiche". ( A. Carotenuto)*
Un film può far bene, assolutamente, anche se non proposto dalla prescrizione di un terapeuta , perché si riconnette a questa trama invisibile, archetipale, come dialogo silenzioso nel nostro inconscio; gli permette la momentanea riproposizione simbolica dello sconforto e della consolazione che sono origine e soluzione dell’arte; rassicura facendoci piangere, ricordare, rimpiangere, consolare. Esso risveglia la coscienza tra memoria antica ed proiezione verso il nuovo, celebra l’unione di mondi diversi, diverse rappresentazioni come differenti interpretazioni, riassume invisibilmente la nostra evoluzione psichica.

"E questo modo di essere, che strizza l'occhio più a quella che ingenuamente definiamo follia, ci riporta alla mente anche la visione di teatro e poesia "non pervertita" che proclamava Artaud. Che auspicava per il teatro un ritorno - o meglio, una riscoperta- del potere dei sensi, alla fascinazione del magico e dell'irrazionale, all'immediatezza e all'efficacia comunicativa delle immagini, della completezza della scena. La riscoperta, cioè, di un linguaggio "materiale e solido", fatto di tutto ciò che possa materialmente esprimersi e presentarsi sulla scena, colpendo i sensi.E il linguaggio dei sensi, dei simboli (tanto cari ad Artaud nella sua ammirazione del teatro balinese) sono propri dell'inconscio, degli strati più arcaici della psiche. Quelli della follia. Ma anche dell'arte e del teatro.
…in una provocazione di Artaud, ma nella quale credo possa rintracciarsi tutto il nesso tra teatro, arte e follia".
"E' bene che talune nostre eccessive comodità scompaiano, che certe forme siano dimenticate: allora la cultura fuori dalla spazio e dal tempo, racchiusa nella nostra capacità emotiva riapparirà con accresciuto vigore. E' dunque giusto che ogni tanto avvengano cataclismi per incitarci a ritornare alla natura, o, in altre parole, a ritrovare la vita" (Artaud, 1964, 130)*

*Relazione tenuta dal maestro prof. A. Carotenuto nel Modulo Cinema Teatro & Follia del Convegno Follia dell'Arte & Arte della Follia, Hypnodrama.it - SIPs, Roma, Palazzo Barberini, il 5-6 dicembre 2003, ultimo contributo del Maestro alla nostra associazione
Foto: foto di scena di "Rodolfo", piece dramaterapica di E. Gioacchini, Atelier Liberamente, dicembre 2007

venerdì 12 giugno 2009

Cinema Therapy. L'incredibile inizio di un grande amore

L’incredibile inizio di un grande amore
Se da bambina mi avessero detto che un giorno avrei amato così tanto il cinema da sentirmi oggi come se fossi regista, sceneggiatrice, attrice e comparsa di ciò che vivo, avrei risposto: “E’ impossibile, non succederà mai”.
I miei primi contatti con il mondo della celluloide sono stati traumatici, roba da denuncia a alla Commissione internazionale per i diritti dell’infanzia!
Avevo sei anni e mio padre mi portava ogni giorno allo sgangherato cinema dietro casa dove proiettavano il peggio dei western all’italiana; e io morivo di paura a vedere tutti quegli uomini "brutti, sporchi cattivi" (e presumibilmente puzzolenti) che si sparavano tra di loro. Ogni tanto (cioè quasi mai) c’erano pellicole con Stanlio e Ollio che mi ridavano fiducia nella vita...
E così , se le altre bimbe della mia generazione, sono cresciute ammirando la soavità de “Gli Aristogatti” io ho conosciuto prima la rudezza degli ambienti del selvaggio West creati in studio a Cinecittà o imitati tra i monti della Tolfa.
Nei miei ricordi infantili non risuona il canto di Cenerentola , bensì il sibilo delle pallottole, i rumore delle cariche del VII Cavalleggeri e frasi del tipo:”E’ finita per te, gringo! Preparati a morire”.
Ho frequentato le elementari in un istituto di suore.
Nella Settimana Santa, la superiora ci offriva la visione di un film edificante che ci desse spunti di meditazione per la Pasqua.




Ci costringeva così alla visione di film come “Incompreso”, “Marcellino, pane e vino”, “Bernadette” e roba così. Noi bambinette tenerelle ci scioglievamo in lacrime, di fronte a tante scene e, se possibile, mostravamo il nostro commosso pianto alle suore per dimostrare loro che sì, sì, avevamo capito il messaggio del film, che saremmo state brave con le maestre e i genitori, che avremmo amato i nostri fratellini e saremmo state pronte anche all’estremo sacrificio.
Il film peggiore che io ricordi si intitolava “Maria nel villaggio delle formiche”; c’era una piccola missionaria giapponese che portava il suo aiuto ai sopravvissuti di Hiroshima e ,ovviamente , alla fine moriva. Non ci veniva risparmiato niente: devastazione, contaminazioni atomiche, sopravvissuti mutilati e con la pelle a brandelli, e, per tutta la durata del film, pioveva.
Fu un’esperienza terribile: temevo che sganciassero una bomba atomica nel prato sotto casa e solo dopo tre giorni mi convinsi che la seconda guerra mondiale era terminata .
Poi, ho firmato la pace con il cinema e me ne sono innamorata, come da copione.
Infatti, spesso i grandi amori iniziano con l’odio e la repulsione.