martedì 1 febbraio 2011

Cinema Therapy e Cinema-Drama Terapia, Disegni Sociali e Artistici, di Plino Perilli

Plinio Perilli durante la conferenza introduttiva alla piece drammaterapica
"Il Fissatigre" di E. Gioacchini, 2007
 Il 3 febbraio a Roma, presso il Creative Drama & In-Out Theatre (CDIOT), sarà ospite Plinio Perilli con la presentazione del suo ultimo volume "Costruire lo Sguardo", vastissimo e intreccaito repertorio sui rapporti tra il Cinema e tutte le altre Arti. L'autore presenterà anche il Seminario di Cinema-Drama Terapia condotto dal direttore del CDIOT, E. Gioacchini.

@ P. Perilli

Che il Cinema, per la sua stessa natura, rituale e implosa, di piccolo-grande scenario o spettacolo di Psiche, sia dotato o possa essere comunque utilizzato, sollecitato per le sue forti virtù affabulanti, catartiche e dunque terapiche, apparve chiaro fin dai suoi primordi. E se le gags rutilanti delle prime comiche di Cretinetti e Max Linder, l’immenso Charlot, perfido e melanconico, lo stesso “lunare” Buster Keaton, i metafisici fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy… lenivano i traumi storici o esistenziali del primo approccio e ingresso nella Modernità (ma anche l’inferno della Grande Guerra, il purgatorio del dopoguerra), i grandi romanzieri per immagini carezzavano per virtù d’intreccio, dramma risolto, vicissitudine salvifica, la voglia e forza di progresso che l’Europa e il Mondo tutto chiedevano in fondo a ‘900.
Ma anche qui, c’è misura e misura. Ci furono insomma registi che restarono alla superficie dei problemi e dell’anima, ed altri che invece si tuffarono a picco fin dentro ai gangli del dissidio (sociale), del malessere (individuale) – insomma di quella che già Herr Nietzsche battezzava “la malattia chiamata uomo”…
Così Tempi moderni (1936), tanto per dire, non fu solo la parodia ma anche il lenimento scanzonato e insinuante contro le tare e le accelerazioni del fordismo industriale, e insomma dell’alienazione accelerata del nuovo mondo del lavoro…
Per virtù doppiamene artistica, gli autori devoti al surrealismo (Luis Buñuel su tutti) giunsero a lidi e plaghe dello spirito annodate e misteriche: corroboranti d’eccezione, diciamolo, per la macchina Cinema –sempre del resto alle prese con le più insondabili potenzialità dei “generi”… Si pensi al gran lavoro che un regista come Hitchcock ha svolto sui reconditi ardimenti o stordimenti di psiche… Veri e propri classici come Io ti salverò (1945) o Vertigo – La donna che visse due volte (1958), ne danno ampiamente conto. Non a caso la notissima sequenza del sogno che perseguita Gregory Peck – in Io ti salverò – fu “disegnata” da Salvator Dalì… Quando poi la Decima Musa trovò altri veri e propri geni come Bergman, Welles, e poi Kubrick – non poté più esserci alcun dubbio: il Cinema celava e proteggeva in sé una fortissima carica psicoterapica, immaginifica, di puro e sano transfert in nome di ogni pur bieco dramma da disciogliere, di ogni ennesima, commedia da rappresentare, e in cui forse addirittura poter noi stessi entrare…
Entrare, entrarci – entrar direttamente dentro allo schermo e a quelle stesse storie, come ci induce a fare in fondo l’esilarante, autocritico Woody Allen con la sue farse serissime e insieme scanzonate (Io e Annie, 1977; Manhattan, 1979; soprattutto, La rosa purpurea del Cairo, 1985)…
Da noi, intanto, Totò e Peppino, in qualche modo perfino Sordi e Manfredi, Tognazzi e Gassmann e tutti gli altri moschettieri della cosiddetta “commedia all’italiana”, facevano un gran lavoro se non altro sull’inconscio collettivo –per non dire sulle tare (talvolta anche sui pregi!) del “costume”…
Ma i gran registi delle contraddizioni, del malessere –della terapia dell’Io verso l’incomunicabile, spesso inaccettabile Altro da sé) furono Fellini e Antonioni– diversissimi ma anche assimilabili. La dolce vita e Otto e mezzo, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso… furono film che, in pieni anni ’60, raccontarono meglio dei sociologi o degli scienziati di psiche il travaglio di una società consumistica che col benessere del consumismo inoculava però, assieme, anche i veleni, lo stress, mille ansie indicibili.

Restiamo al fermento italiano: una nuova generazione (allora, di baldi giovani!), quella dei Marco Bellocchio e dei Bernardo Bertolucci –affidò al cinema certo un ruolo privilegiato, nella grande rivolta sociale (ma soprattutto psicologica, introiettata) succeduta e sospinta dal ’68… E anche qui, film come I pugni in tasca, Il conformista, Ultimo tango a Parigi, ebbero grandi meriti di sincerità e denudamento doveroso.
Pier Paolo Pasolini, intanto, continuava il suo gran lavoro combinatorio tra immagine e poesia, protesta e denuncia… Ma –udite udite!– affidate all’arte. Titoli come La ricotta (1963), Uccellacci e uccellini (1966), Teorema (1968), lasciarono il segno.
E molti altri grandi numi tutelari continuavano a mettere in discussione –per fortuna– la nostra malcelata tranquillità o crisi d’ansia borghese, le nostre false sicurezze, le malattie meno diagnosticabili ma certo non meno infauste… Ingmar Bergman con –tra gli altri tanti capolavori – Il posto delle fragole, 1958; Sussurri e grida, 1972; Scene da un matrimonio, 1973; L’immagine allo specchio, 1976… Lo stesso Kurosawa migliore (quello ad esempio di Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure, 1970); Jacques Tati e il Playtime dell’alienazione (1967)…
Ad ogni generazione che sopravviene, il Cinema trova, gioca nuove chances di denudamento dell’Io, e cento approcci fantasiosamente psicoterapici: addirittura di laica, mimetica rappresentazione (come una volta fu per il teatro!) di tanto e tale malessere. Lo fece Wim Wenders con la sua Germania ancora piena di cicatrici e ferite storiche, insomma con gli angeli “umanati” de Il cielo sopra Berlino (1987)… Lo fece Pedro Almodóvar coi più belli dei suoi film – ed una Spagna che appena uscita dal franchismo e da una grigia dittatura anche della coscienza, ritrova desideri, fervori, perfino incubi nuovi: Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), Tutto su mia madre (2000), Parla con lei (2002)…
Con Quentin Tarantino –e il vizio/vezzo di un fin troppo statunitense, e più che estremo genere “splatter” –arriviamo all’ultimo gradino della discesa ad inferos di un moderno, modernissimo “male di vivere”… Una risultanza e una reazione violenta alla mera e cruda violenza che –per fortuna – sfocia come in un’autoparodia catartica, in un’accelerazione plasticata e giocata… Ed è in fondo proprio la tecnica (eventualmente la postmoderna contro-morale!) dell’accelerato genere “horror”… Le iene (1992), Pulp fiction (1994), restano per fortuna solo fiction… Più ce ne rendiamo conto, più le allontaniamo da noi, dal nostro habitat e dal nostro cuore…
Qualcosa da individuare e strappar via, come una neoplasìa, un tumore forse ancora benigno che la Società non può permettersi, né ammettere: se non proprio mettendolo in scena, calandolo e cauterizzandolo in Spettacolo, nel teatro perenne o subitaneo, trasparente o perfettamente calcato, sudato, dei nostri eventi d’esistenza: “Il Teatro: ecco la trappola” – fa dire Shakespeare ad Amleto – “in cui prenderò la coscienza del re”…
Nient’altro davvero è il buon Cinema che un inopinato, trasfigurante teatro per immagini. Terapia ed empatìa assolute, se lo spettatore/paziente vi si affida con la serenità di chi anche da fermo sa e vuole intraprendere dei lunghissimi viaggi interiori.

Testo consigliato: Plinio Perilli, Costruire lo Sguardo (Storia Sinestetica del Cinema in 40 grandi registi”), Gruppo Mancosu, Roma, 2009.

sabato 29 gennaio 2011

ALTRE VISIONI, performance di canto per voce nuda ed arpa bardica, di N. Maroccolo e C. Lauri

Il 3 febbraio a Roma (h. 20.30), il Creative Drama & In-Out Theatre, diretto dallo psicoterapeuta E. Gioacchini presenta una intensa performance di voce ed arpa, nel contesto di un seminario di Cinema-Drama Terapia, aperto a pubblico e professionisti del settore.

Perfomance di N. Maroccolo e C. Lauri alla Galleria d’Arte Moderna,
intitolata a Giacomo Manzù, di Ardea, 8
ottobre 2010
Nina Maroccolo, insieme alla musicista Cristiana Lauri, moderne e delicate trovadore, seguendo l’intuizione e il bisogno di “Altre Visioni”, accompagnano, teatralizzano e cantano sul palcoscenico della cinema-drama terapia, fabulando in una singolare performance artistica. Attivando le emozioni del pubblico, concederanno ad esso lo specchio ideale in cui ritrovarsi.

Ingresso gratuito (gradita prenotazione), info.atelier@yahoo.it

martedì 25 gennaio 2011

Che cosa è la Cinema-Dramaterapia

Per discutere di cinema-dramaterapia è necessario fare qualche premessa epistemologica e metodologica sulla Cinema Therapy.
La funzione sciamanica, quasi 'profetica' che può essere riferita all'arte, nel contesto psicoterapeutico della cinema therapy, è realizzata pienamente in quello che secondo Birgit Wolz e molti altri psicoterapeuti è definito come “sciamanesimo moderno”. Si tratta di un lavoro interno al soggetto, suscitato dalla pellicola, in un setting di terapia, ma anche formativo e ricreativo. In queste situazioni, quella che viene ad essere stimolata è una “catarsi”, nell’accezione più moderna del termine, che spesso si svolge senza discussione esterna visibile, senza un’interpretazione del dialogo -una serie di operazioni mentali che coinvolgono profondamente i processi inconsci nella sfera cognitiva ed emozionale dell’individuo (Tyson, Foster, e Jones, 2000), anche al di fuori della sua consapevolezza. In drammaterapia la catarsi è l’equivalente di un processo rappresentativo che comporta una nuova attribuzione di senso a quanto si esperisce nella specifica rievocazione. In tale direzione lavora quello che definiamo processo dramma terapico, una costante stimolo da parte del vissuto rappresentato dal soggetto e dal gruppo ad evocare quanto sommerso: in questo consiste il drama.
Quest’ultimo concetto ci riporta a re-introdurre nella comprensione del meccanismo “curativo” l’importanza dell’azione, della partecipazione sensoriale-emotiva, all’attribuzione di significato propria dell’insight, quale comprensione della propria vicenda nel contesto degli elementi più significativi della personalità. Dunque, la dimensione transferale colta da Freud in poi nei sentimenti (agiti o pensati, consapevoli o meno, verso il terapeuta e verso il mondo). Afferma Fornari in proposito: “…il transfert significa che gli affetti non presentano se stessi, ma stanno al posto di qualcosa d’altro, di altri affetti, per altre persone. Il transfert contiene la situazione teatrica, nel senso che l’affetto per una persona trasforma la persona in qualcosa che sta al posto di un personaggio”. Ed in questo particolare approccio terapeutico è fondamentalmente rispettata la libertà del rapporto e la sua profonda indipendenza proprio attraverso la dimensione della “intersoggettività”, che non esclude le dinamiche transferali, ma che sottolinea la laicità nella relazione d’aiuto, rispetto al modello paternalistico o solo informativo di alcuni contesti (della trasmissione dei dati). Il Glossario del Researching Society and Culture dà questa definizione del termine "intersoggettività: “ …è costituita dal senso commune dai significati comuni costruiti dagli individui nelle loro interazioni reciproche ed utilizzati come risorsa costante per interpretare il senso degli elementi della vita sociale e culturale” (Second Edition, Clive Seale Editor). Quanto espresso bene si condensa nelle parole di Hans Jonas quando afferma che “…la responsabilità verso l'altro non ha tanto la funzione di determinare quanto quella di rendere possibile”.
Appare immediatamente evidente come, nella visione di un film, si realizzi una intensa condivisione “culturale” di alcuni contenuti che, tuttavia, lasciano possibile la “significazione” personale della trama, delle azioni, degli eventi descritti. Questo coinvolgimento dello “spettatore”, dove guidato, discusso ed elaborato, elicita una fantasmatica che ripropone conflitti e risorse ed offre una preziosa opportunità verso il superamento ed il cambiamento. L’apparente “mascheramento” della propria vicenda, come rivissuta, all’interno del soggetto cinematografico, riproduce esattamente quanto avviene nello psichismo con i significati manifesti, ma poi, paradossalmente offre la possibilità di togliere la maschera alle zone d’ombra della persona, quelle che sono sempre responsabili del sequestro delle energie e delle risorse, altrimenti utilizzabili ed inerisce ai contenuti latenti. Attraverso il setting di cinema therapy vi è lo stimolo ad costante processo d’identificazione (assimilazione al personaggio o discostamento da lui) che fanno dello stesso setting terapeutico un “oggetto transazionale” (E. Gioacchini, 2005). Afferma Birgit Wolz, una delle voci più autorevoli della cinema therapy: “…l’'osservazione di un film ha un effetto magico, più di qualsiasi altro mezzo di narrazione; i film hanno la potenza di dipingerci fuori da noi stessi e nell'esperienza dei loro personaggi. Allo stesso tempo, è spesso più facile mantenere una distanza o una prospettiva sana durante l'osservazione di un film di quanto lo sia in situazioni di vita reali”…e sarebbe proprio questo elemento che nel contesto di una qualsivoglia psicoterapia darebbe luogo a processi di trasformazione e guarigione. Inoltre, deve essere osservato che questo felice accostamento alla “verità” umana del soggetto, sia da parte dello stesso che del terapeuta nel setting di cinematherapy è mediato attraverso la condivisione, ma non permette inganni nei confronti dell’autenticità, eludendo molte delle possibili resistenze del soggetto.


Se quanto brevemente riassunto descrive l’essenza della cinema therapy, è nella stessa azione cinematografica che risiede il senso della cinema-drama-terapia, così coniato (E. Gioacchini, 2006); sia che venga utilizzata in contesti clinici o solo a scopi di formazione o ricreativi.
Si deve premettere che questa metodologia non si riferisce unicamente al sincretismo tra il setting drammaterapico e quello della cinemathearpy, quale giustapposizione di due metodi. Formalmente si può descrivere l’operazione distinguendola in due momenti: 1) quello dell’azione dramaterapeutica che ha avuto luogo con la contestuale ripresa registrata e (2) quella che si riferisce alla possibile ridefinizione terapeutica attraverso l’elaborazione da parte del gruppo. Ma non si tratta unicamente di questo. A significare il modo intimo e sinergico in cui vi è l’incontro delle due tecniche, basterebbe notare come, nella prima fase, il grande '"occhio" del mezzo di ripresa che registra la situazione in atto viene sfruttato nella sua indubbia azione “interferente” su quanto si sta svolgendo.. Infatti, nella situazione di ripresa, mentre è in atto il processo dramma terapeutico, non c’è solo un soggetto/oggetto del gruppo o l’audience del pubblico, a rappresentare l'altro (quanto perfomato dagli attori), ma è piuttosto l’intero gruppo, il “teatro” nelle sue componenti ad essere oggetto di una osservazione “aliena”: la macchina da presa. La drammatizzazione viene inserita in una meccanismo del tipo matrioska, che riporta il processo ad una costante meta-categorizzazione delle relazioni; una comprensione non unicamente affidata all'azione e, per molti versi, direttiva. La ripresa cinematografica, quindi, non soltanto possiede la funzione di registrazione utile per la seconda fase del briefing e dell’analisi da parte del gruppo, ma inerisce a un diverso modello di funzionamento dello stesso, che è insieme soggetto osservante ed osservato; funzionamento meno affidato ad un concetto di catarsi del tipo “evacuativo”, prestandosi a sollecitare quella distanza “estetica” dal conflitto che è richiesta e la fase di visione sollecita maggiormante. Osserviamo che, in tale situazione, il gruppo, gli attori, il regista sanno di essere “osservati” e registrati” e questo dato, con il tempo, viene a perdere il significato di elemento di disturbo, a vantaggio di uno stimolo alla ricerca introspettiva maggiore: una specie di gancio conscio-inconscio che sollecita l’emergenza dei contenuti inconsci, piuttosto che distrarre, come apparentemente si potrebbe supporre. Questa consapevolezza, infatti, crea reazioni di continuo di controllo e perdita di esso, nella paradossale ricerca del proprio spazio privato spontaneo ed autentico. La macchina da presa è comandata dal Director o anche da uno dei partecipanti e compie riprese che hanno il duplice scopo di sollecitare ed esplorare attraverso ottiche differenti (chi riprende) la stessa scena.
Un esempio può aiutarci a comprendere meglio. Consideriamo il fattore 'resilienza' nel contesto dello stress che il “drama” sta esprimendo in una data situazione performativa del setting drammaterapico. Nel caso della cinema-dramaterapia, il gruppo degli attori non si confronterà più soltanto con la vicenda rappresentata, ma sarà disponibile un tempo supplementare di rielaborazione e significazione più analitica di quanto avvenuto (sulla falsa riga dello statuto operativo della micropsicanalisi). E’ così intuibile come la cine-drama-terapia colleghi elementi del teatro con quelli del cinema: il soggetto, mentre gioca la sua parte, è solo apparentemente 'distratto' da propria 'narrazione esterna' e, piuttosto, finisce per offrire quasi sempre una massiccia proiezione di se stesso sulla scena. Questo accade grazie al lavoro dramaterapeutico svolto precedentemente, nell’apprendimento della parte e nella interpretazione del personaggio. La scena finale registrata può poi essere ri-analizzata ed elaborata all'interno del gruppo, proprio come accade nella cinema therapy, nel confronto tra quanto esperito ed ora ri-visto. E’ qui l’attore che esercita un ascolto finalmente responsabile della propria “azione scenica”, ovvero attraverso una nuova consapevolezza.
Dobbiamo ritenere che quanto Winnicot indica al terapeuta come strada verso l’autenticità” dell’essere, quando afferma “Il medico che ha paura della verità deve imboccare un'altra professione (D.W. Winnicott), debba essere assunto e condiviso anche dal paziente.
Crediamo, tuttavia, che la coscienza dell’individuo sia una funzione evidentemente dinamica e complessa, che non può essere ridotta all’esercizio noetico e dunque all’insight. Essa alberga in in corpo mentalizzato, così come la nostra mente è anche fondamentalmente corpo, sensazione, emozione, dunque azione. Nella dramma terapia ed anche nell’uso del mezzo cinematografico ritroviamo questa interezza di sollecitazione.
"Spensi all’uomo la vista della morte, poi lo feci partecipe del fuoco", così Eschilo descrive i due doni che Prometeo ha dato all’Uomo: la speranza che non vede (la morte) il dono del fuoco che, come interpreta Platone è il saper tecnico(conoscenza) e il saper fare (capacità operativa) per cui la tecnica e i suoi progressi sarebbero basati sull’illusione dell’immortalità.

lunedì 24 gennaio 2011

CINEMA-DRAMATERAPIA SEMINARIO: Una Camera a Guado nello Stagno


Roma, 3 febbraio 2011

L’ottica di una camera che riprende sopra e sotto la superficie del guado. Per metà Ranocchio e metà Principe, l’interprete-personaggio è condotto dentro la pellicola a rivisitare i propri gesti ed abiti, mentre continua a lavorare il processo dramma-terapico: cinema-dramaterapia.
Il Seminario sarà preceduto dalla Presentazione del Volume


"Costruire lo Sguardo"

di Plinio Perilli, Ed. Mancosu, Mi.2009

Performance Introduttiva

Nina Maroccolo

vai al COMUNICATO STAMPA
prenotati info.atelier@dramatherapy.it