lunedì 25 ottobre 2010

Cinema Alchemy: Using the Power of Movies for Healing and Transformation by Birgit Wolz.

Un interessante Workshop di Cinematherapy sarà tenuto dal 20 al 25 febbraio 2001 presso il Esalen Institute, Big Sur, California. Brigit Wolf ci informa che si tratta di un workshop esperenziale...
Inquiries into our emotional responses to movies open a window to our soul. How we relate to a film's archetypal motifs reveals our inner life. Together we build a bridge between our realizations in "reel" life and our experiences in real life. Watching films with conscious awareness makes us recognize aspects of our shadow self, and help us find our authentic self and essence.
Potete trovare la completa descrizione del seminario a questo link.
Registrazione: 831-667-3005 o mailto:info@esalen.org
Buona Fortuna per il tuo Workshop, cara Birgit!. Noi continuiamo a seguire le linee guida del tuo lavoro. Cinema-dramaterapia Team (listed in Cinematherapy.com Professional Directory)

domenica 3 ottobre 2010

Cinema, Cinema-forum, Cinematherapy: come vediamo i film oggi

@ M. Pina Egidi, E. Gioacchini

Il cinema e tutto quanto gira intorno alla sua costruzione sono oggi in una accellerata evoluzione che promuove nuove riflessioni. La sua nuova dimensione tecnologica, le modalità di fruizione sono profondamente cambiate. Arte cinematografica e prodotto on demand per un identico spettatore?

Chiedete a chi è nato prima degli anni ottanta di raccontarvi un film visto ai tempi in cui era studente, sposina, militari di leva e -sette volte su dieci- vi parlerà non solo della pellicola, ma anche della circostanza in cui l'hanno vista. Vi descriverà la sala o la piazza dove è stato proiettato, rievocherà la serata, le emozioni, nominerà le persone che erano con ui, saprà indicare, se non la data esatta, almeno la stagione dell'anno di quell’evento. Insomma, vi descriverà una storia –il film- dentro a un'altra storia -la sua-, magari distorta dalla nostalgia, incompleta e, se non reale, almeno realistica, dove le emozioni del momento vissuto si mescoleranno a quelle rievocate dal ricordo del film.
Sagre patronali, quando la gente si recava in arene improvvisate sulla piazza di paesini, portando con sé la sedia da casa e tutta la comunità partecipava all'evento, con commenti estemporanei e battute lanciate dal fondo, condividendo e enfatizzando emozioni collettive. Domeniche pomeriggio di uscita coniugale, con il vestito buono, ritualizzate come la messa grande delle undici e l'aperitivo nei tavoli all'aperto di un bar. Il gruppo di amici riuunito, nelle sale di seconda visione, a sghignazzare sul film scollacciato negli anni settanta. Educazione (o diseducazione) sentimentale collettiva iniziata, nei pomeriggi dopo la scuola, davanti a “Il Tempo delle Mele” e “Laguna Blu” nei primi anni ottanta.

Il valore aggregativo del cinema e il suo ruolo di formazione, celebrato in molte scene da “Nuovo Cinema Paradiso”, è andato perduto? A una prima analisi, forse sì, se si pensa, ad esempio, alla fruizione dei cinema multisala, nei contesti urbani. Il “cinemino” sotto casa, o la sala di seconda visione per assistere a proiezioni in totale relax con gli amici sembra un ricordo lontano. E’ della stessa idea Emanuele Protano, critico cinematografico di Point Blank (http://www.pointblank.it/), come ci evidenziava in un nostro incontro non molto tempo fa: Il cinema ha perso il suo valore aggregativo......Oggi il cinema è più un discorso individualista: è ancora un aggregatore numerico, ma non esperienziale. La gente va in massa al cinema, ma non ci va in quanto “massa”, ma in quanto migliaia di unità. Questo mi pare facilmente comprensibile e constatabile da ognuno di noi. Se il cinema è ancora aggregativo (il che è tutto da dimostrare) allora lo è in maniera post-esperienziale, ovvero composto da gente che DOPO il film se ne ritrova a parlarne in maniera così disinteressata, la maggior parte delle volte…”. La stessa maggiore diffusione di “pellicole” (possiamo ancora chiamarle così?) attraverso le reti web permette la fruizione del prodotto cinematografico in una dimensione “solitaria”, che quindi spesso viene a privarsi dell’elemento di discussione sociale su di essa.

D’altra parte, la trasformazione digitale del cinema che è in atto, con l’utilizzo sempre maggiore di una tecnologia tesa all’effetto, sia nel senso del realismo (vedi 3D), sia di superamento fantastico di questo, comporta tendenzialmente un irretimento dell’attenzione dello spettatore su aspetti che sono più formali, appunto spettacolari, con un conseguente disinteresse per la validità della “storia”; questa dinamica è maggiormente osservabile nelle fasce più giovani del pubblico. Già nel 1996, a proposito di media e televisione, il sociologo francese Jean Badudrillard (Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? Cortina Raffaello Ed. 1996) definiva il furto della realtà -la tendenza della realtà a sparire davanti ai nostri occhi- “il crimine perfetto”; infatti la mente moderna, tecnologizzata, non si limiterebbe ad accettare la realtà virtuale, ma arriverebbe a preferirla. Riguardo quest’ultimo aspetto, desideriamo sottolineare che, ad esempio, l’iperspazio virtuale di un film si presta a immedesimazioni in termini di virtualità sonora e visiva, che si prospetta possa diventare sempre più multisensoriale, che vanno oltre quella squisita qualità che da sempre ha avuto il cinema, cioè la capacità di “mentire” attribuita alle sue immagini ed al loro uso artistico, e questo non è riducibile solo in termini di stimolazione percettivo-emozionale. Quello che si immagina possa avvenire è il passaggio del cinema e della narrativa da luogo di fruizione di “visioni” a quello di “vissuti”. trasmettere L’elemento di mediazione tra la realtà e l’uomo non può essere costituito prevalentemente da un apparato fisico, così come il nostro pensiero ha bisogno del dubbio, funzione categoriale diversa dalla stima statistica. A tale proposito, può essere utile ricordare come Freud, alla lusinga offerta dai Surrealisti alla sua psicanalisi, quando celebravano l’arte come espressione diretta dell’inconscio, opponeva invece uno sdegno, perché egli pensava che tra il serbatoio delle nostre più profonde energie e l’espressione artistica esista una “velatura” che dà senso, un campo, dunque, indefinito e personale che non è riproducibile o semplicemente dicibile in termini di pulsione e percezione. E, se riflettiamo bene, sino a non molto tempo fa, il massimo prodotto eidetico della mente era costituito solo dall’arte. Oggi, il cinema non può essere schivo al fascino della tecnologia, ma certamente in esso questa non costituisce l’elemento da privilegiare. Si tratta di un problema alquanto datato e che riguarda in genere tutte le fore di arte. Anche per il cinema riteniamo tuttora valida la risposta di Bertold Brecht, secondo il quale, l'arte, in generale, non è uno specchio con cui riflettere la realtà, ma un martello con cui darle forma.

Quanto descritto certamente possiede un ruolo di distrazione dai messaggi più importanti che una pellicola può trasmettere. Non si vuole qui esprimere un giudizio sulla validità o meno di questo ruolo emergente, spesso solo ricreativo ed usa&getta del cinema e rischiare di cadere in valutazioni scorrette o superficiali; preferiamo invece indagare dove sia ancora presente la funzione aggregativa, educativa, esperienziale della fruizione del prodotto cinematografico.

Si è accennato poco sopra ai contesti urbani: senza dubbio, la nascita dei cinema multisala o di piccole cittadelle sviluppatesi intorno ad essi, dove si può cenare, fare shopping, incontrarsi –cioè fare altro, che non solo andare al cinema- risponde alle esigenze della grande città. E' molto più semplice trascorrere una serata in un sito ove tutti i componenti che costituiscono il momento di evasione sono raccolti in un unico sito, in maniera da offrire ogni servizio a portata di mano.In simili contesti, diventa limitativo dire che “si va al cinema”…

Senza mettere in discussione una tale modalità di fruizione, legata a logiche economiche, è tuttavia innegabile che tale contesto sia altamente dispersivo e che venga meno la condivisione dell'evento. In tali circostanze. È alto il rischia di perdere la memoria emotiva del film appena visto, perdendo così una delle più belle funzioni del cinema che gli appassionati conoscono bene.

Se si vuole ritrovare il sapore della condivisione vera e profonda del cinema, è nei cineforum che va cercata e, in particolare, in iniziative di tale genere che nascono in risposta a situazioni di criticità e di fragilità culturale. Cenacoli di discussione sul cinema e contesti dove quest’ultimo trova un uso dedicato alla terapia (cinematherapy) trovano d’altra parte sempre una maggiore diffusione nel nostro paese ed all’estero.

La provincia italiana, dove la vita quotidiana è fortemente condizionata dai ritmi e/o ai problemi dell'economia locale, offre, a parere di chi scrive, molti esempi di situazioni in cui si può ritrovare “l'antica” modalità di godimento del cinema, con il valore aggiunto che molte iniziative nascono spontaneamente “dal basso”, senza cioè interventi manageriali.La proiezione di pellicole di successo della stagione invernale, durante le sagre estive, è ad esempio ancora viva in molti piccoli centri del Lazio e, in alcuni casi, sono nate spontaneamente delle vere e proprie rassegne di grande qualità, curate da appassionati e cultori della materia locali.

Prendiamo degli esempi vicino alla capitale. Nel reatino, è attiva la rassegna dedicata a Fausto Tozzi , che si è strutturata in maniera sempre più professionale , ma senza perdere la caratteristica della fruizione di piazza e di animazione per il piccolo centro che la ospita.

A Itri, provincia di Latina, è attivo il CinemaBrigante, nato da un gruppo di giovani auto-organizzatisi, con l'obiettivo dichiarato di migliorare “la qualita della vita degli appartenenti alla comunità locale.” Il gruppo organizza il Cineforum permanente , attivo durante l'anno a seconda delle situazioni contingenti, che è caratterizzato da due elementi fondamentali e imprescindibili: 1) prima della visione del film in programmazione, tutti i partecipanti propongono o suggeriscono, sotto la guida del moderatore, eventuali pellicole da proiettare nella settimana successiva, anche illustrandone la trama; 2) i titoli proposti vengono votati democraticamente per alzata di mano e il film con maggiori consensi, ovviamente, è proiettato nella settimana successiva. La stagione del cineforum si sviluppa così, step by step, con una caratteristica di continuità conferita dalle decisioni collettive e condivise. In una situazione come quella appena descritta è evidente come venga a crearsi un evento altamente partecipato che risponde a molteplici necessità: il desiderio di stare insieme in modo diverso, di condividere identici percorsi di crescita nello scambio e di arricchimento personale, la reazione a sistemi e contesti di vita spesso avvertiti poco stimolanti.

mercoledì 2 giugno 2010

Cinematherapy: la Commedia all'italiana


Commedia all'italiana, ci chiediamo se i suoi contenuti possano interpretare spirito e costume di altri luoghi, vista la intensa caratterizzazione dei personaggi ed interpreti che l'hanno fatta, registi ed attori, personaggi e contesti. La domanda è retorica poichè la storia degli ultimi quarant'anni di cultura e cinema hanno ampiamente dimostrato che la nostra cara "commedia", quella specie di teatro nel cinema -mi piace immaginare-, ha coivolto nella visione spettatori di ogni latitudine.
Film come Totò Cerca Casa (1949) di Steno-Monicelli; Il Vedovo Allegro (1949), Totò Sceicco (1950) di Mario Mattoli; La Banda deli Onesti (1956) di Camillo Mastrocinque; Nata a Marzo (1957) di Antonio Pietrangeli; I Soliti Ignoti (1958), La Grande Guerra (1959), Risate Di Gioia (1960), I Compagni (1963) e L'Armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli; Il Buono, Il Brutto E Il Cattivo (1966) di Sergio Leone...tanto per citarne solo alcuni.
Mario Monicelli, in un'intervista di Francesca Arceri, intitolata "Il (sor)riso amaro della commedia all’italiana", afferma: "...Sì, perché infatti ridono. Non solo in Italia, ridono i francesi, gli americani e i cinesi. Questi ultimi amano molto la commedia all’italiana, la doppiano anche. Dovreste sentire Totò parlare in cinese! Universale perché i sentimenti sono sempre quelli, non cambiano mai: né con i secoli né con i paesi".
Quel pregio speciale di far sorridere ed anche intensamente ridere su temi drammatici che si riferiscono alla "lotta" per la vita, nella giungla metropolitana o moderna di un civiltà che ha il coraggio di mostrare il suoi lati fragili, vulnerabili, non posside limiti culturali. Sospende la coscienza ed ha fatto di quelle pellicole poesie agresti e cittadine, scardinando per un poco i limiti "severi" e rigorosi tra il bene ed il male, il brutto ed bello, il buono ed il cattivo. E' il pregio della umanità e della creatività che sanno usare l'ironia, tentando una dissacrante anatomia dell'uomo, per restituirlo agli affetti della comunità, che fosse la famiglia, il gruppo, la banda, la strada. Lezione di alta arte che certamente si presta ad essere utilizzata in cinematherapy per queste stesse motivazioni,e che fonisce un ampio ventaglio di situazioni e motivi.

CONFERENZA-LABORATORIO: Dentro la Pellicola, Cinematherapy e Cinema-dramaterapia

 venerdì 11 giugno (h.20,30)

Conferenza e laboratorio sulla Cinema Therapy tenuti da E. Gioacchini e M. P. Egidi, Atelier di Drammaterapia per le Risorse -Roma (riferimento scientifico, Cinema Therapy di Brigit Wolz).
Dopo un veloce primo tempo, che darà codice e legenda per la lettura del laboratorio successivo, i partecipanti sono condotti dentro la pellicola e rivisitare con i propri gesti ed abiti la proiezione di stralci cinematografici che raccontano la storia di tutti e una macchina con un’ottica specifica a riprenderla. Invito gratuito rivolto ad addetti ai lavori e professionisti del settore, oltre che al pubblico.

Info e prenotazioni: Cell. 340-3448785 o scrivendo a cinematerapia@yahoo.it


Poster: Fotolia_7341268_S, ktsdesign - Fotolia.com

Cinema-Dramaterapia, la Commedia Italiana: Il coraggio, se uno non ce l'ha, non se lo può dare

La commedia all’italiana, attraverso le interpretazioni dei grandi "mostri sacri", ci ha fornito una galleria di personaggi ritratti impietosamente nelle loro meschinità e nella loro ristrettezza di vedute, di interessi, di atteggiamenti. Personaggi non proprio esemplari o encomiabili, ma descritti e interpretati con tale maestria che, attraverso i moti del cuore, sono entrati nella memoria collettiva, nonostante si tratti di ladruncoli, arruffoni, imbroglioni, illetterati, sciovinisti, dongiovanni da strapazzo e via dicendo. L’avarizia, la fame cronica, le piccole astuzie sono quelle di Pantalone, di Pulcinella, di Arlecchino, ma non basta a riscattarli la gloriosa eredità diretta delle maschere della Commedia dell’Arte, poiché le loro deficienze etiche sono profonde, anche se giustificate dalle circostanze storiche (la guerra, la ricostruzione) o culturali (la borgata, la provincia) entro cui si muove la trama.
Eppure, ritengo che, se volessimo rinvenire nel cinema il prototipo del “grande eroe”, lo dovremmo ricercare proprio tra i personaggi della Commedia all’italiana (si parla della commedia di autore, beninteso). No, non aspettiamoci di rinvenire tra i personaggi secondari un coraggioso giovane, dai capelli biondi mossi dal vento che fa da controparte alla macchietta protagonista. Gli eroi veri sono proprio loro: i personaggi di Fabrizi, Gassman, Sordi, (nomi che solo a scriverli, tremano i polsi), il romano sbruffone e pavido, il pacioso uomo di mezza età, il pugile suonato e la nuova maschera, il grande Totò, solo per citarne alcuni.
Niente Rambo, nè Indiana Jones, niente muscoli d’acciaio o nervi saldi, niente sprezzo del pericolo. Qui si parla di altro. Il coraggio, se uno non ce l'ha, non se lo può dare”, diceva Don Abbondio. Ma è veramente così? Non voglio contraddire Manzoni che , tra l’altro, non esprime con questa frase il proprio pensiero bensì una riflessione coerente con il carattere del suo personaggio (non a caso, interpretato proprio da Alberto Sordi, nell’ultima rivisitazione televisiva de “I Promessi Sposi”.


 La vita personale insegna a tanti che coraggio ed eroismo possono essere pane quotidiano; come vogliamo chiamare , altrimenti, quella forza silenziosa e costante che ci fa sopportare i disagi, i malesseri e i problemi? Siamo forse meno eroi di un condottiero nella battaglia, quando affrontiamo o decidiamo i cambiamenti? Il mondo è pieno di eroi silenziosi che non sanno di esserlo. E allora, la tradizione della Commedia all’italiana, ci mostra questo afflato alla grandezza, al beau geste che è presente anche nelle coscienze più vili. Ritengo, senza dover fare ricorso ai numerosi riferimenti bibliografici di settore, che il coraggio, sia esso il colpo di reni o le piccole dosi di eroismo quotidiano, siano patrimonio evolutivo della specie umana. Ci è voluto fegato a lasciare la comoda vita sugli alberi e la dieta frugivora per passare alla stazione eretta e alla conquista di nuove nicchie.

Spesso, in molte pellicole, l’atto di eroismo arriva alla fine, ed è inatteso, drammatico, capace di sovvertire il tono della trama. Vogliamo ricordare il finale de “La Grande Guerra”, che proprio commedia leggera non è, dove il romano Oreste Jacovacci ed il milanese Giovanni Busacca, dopo essere sopravvissuti con piccoli mezzi ai pericoli del fronte, muoiono fucilati per non farsi umiliare dal disprezzo dell’ufficiale dell’esercito asburgico.
Oppure Alberto Sordi che ritrova amore e dignità, gettando nella piscina con un sonoro ceffone l’uomo politico di cui ha accettato di diventare portaborse perché stufo di una “Vita Difficile”.
E infine la scena più bella, più grandiosa. L’unica parolaccia pronunciata da Totò in un suo film, una frase che, nella circostanza del film e detta da un vero principe, supera il più nobile squillo di tromba.Guardiamo quell’eroismo che tracima, che irrompe, che DEVE rivelarsi e a poco a poco rompe la scorza di miseria morale da cui è avvolto il colonnello dell’esercito italiano, interpretato da Totò. Osserviamo gli sguardi dei soldati italiani, schierati in attesa della decisione del loro ufficiale: non vi sembra di vedere la certezza, la fiducia che il momento del riscatto morale, proprio e del loro ufficiale, sta arrivando inesorabile?

E non vi viene voglia di unirvi alla catarsi di quei personaggi meschini che ci hanno fatto vedere una guerra di occupazione, fatta di miserie, inciuci e piccole prepotenze, senza valori né ideali? Fosse pure una catarsi riassunta dal gesto così italiano, partenopeo, da “tarallucci e vino” di Nino Taranto sullo sfondo, ma così naturale e quotidiana.

Tutto è qui, in questa scena de “I due Colonnelli".
Tutto il resto è silenzio”, Amleto, W. Shakespeare.

martedì 27 aprile 2010

CINEMATHERAPY “Le rughe non coprirle che ci ho messo una vita a farmele venire”

@ Maria Pina



Le rughe non coprirle che ci ho messo una vita a farmele venire”. Così rispose la grande Anna Magnani  al suo truccatore. Le grandi attrici, soprattutto le attrici di teatro, sanno che la maturità apre nuove porte all'interpretazione e offre nuovi ruoli con cui confrontarsi: guai quindi a mantenere inalterato l’aspetto fisico, senza lasciare che il passare degli anni faccia emergere sul volto e sul corpo le esperienze vissute.
Ma oggi bellezza e gioventù sono un diktat indiscutibile per tutti, uomini e donne.Bellezza e gioventù che si traducono in una lotta spietata, sfibrante a ogni segnale che faccia discostare l’immagine individuale dall’aspetto che si aveva a venticinque anni.Pelle di porcellana, capelli di seta, corpo tonico e magro non sono richiesti solo a chi svolge un’attività legata all’uso della propria immagine, ma sono vissuti come una necessità imperativa in ogni aspetto relazionale della vita quotidiana. E per ogni segno dell’età esiste un rimedio, persino per ritoccare i primi afflosciamenti delle ginocchia femminili (Demi Moore docet).
Chi scrive, donna in corsa vertiginosa verso la terza età, non sfugge a questi condizionamenti e ciò sia detto per fugare ogni possibile dubbio sulla buona fede di questo intervento. La propria faccia allo specchio di prima mattina, così come l’approssimarsi della prova bikini, provocano sudori freddi anche negli animi più saldi, e non credo di sbagliare in questa valutazione. Tuttavia, qui non si vuole parlare delle legittime e dovute cure alla propria salute/bellezza, né si vuole stigmatizzare la vanità personale che presenta risvolti positivi quando si traduce in buon gusto nel vestire, in rispetto per sé stessi e per la vita sociale, quando diventa espressione di creatività e benessere interiore.
Si vogliono affrontare i risvolti patologici della risposta individuale delle pressioni esterne che vogliono vincenti solo i “giovani-belli-magri”.
La diffusione di disturbi alimentari (bulimia, anoressia) o la paura dei cambiamenti del fisico (dismorfofobia) non è disgiunta dai condizionamenti esterni dovuti all’affermazione di un modello individuale che esclude l’imperfezione e il cambiamento.
Non si può nascondere che spesso anche il cinema ha contribuito a far affermare un modello di donna (e di uomo) perfetto sotto questo punto di vista; ma, per ogni cinepanettone che celebra la divetta del momento, esiste un film di spessore, comico o drammatico, dove Susan Sarandon  e Meryl Streep  mostrano la loro gloria di dive mature.
Per rimanere in ambito italiano, si pensi a Stefania Sandrelli e alla sua quarantennale/cinquantennale carriera.
Attrice ventenne, è il fulcro di pellicole della migliore commedia all’italiana: come non solidarizzare con Marcello Mastroianni che si arrovella per uscire dal suo stanco matrimonio e sposare la sua dolce e inarrivabile cugina?
E chi non si sente di dare dello stupido a Peppino, che rifiuta Agnese perché non più pura in “Sedotta e abbandonata”? 
A trentacinque anni, una Sandrelli dal corpo ammorbidito dall’età fa sognare gli adolescenti che vagheggiano la sapienza e l’erotismo rassicurante della mezza età nel film “La Chiave”. Oggi Stefania Sandrelli ha circa 65 anni; onestamente non so se il chirurgo estetico abbia mai toccato il suo volto, ma di sicuro non segue diete.
Recentemente sullo schermo ha interpretato il ruolo della madre in “La prima cosa bella” di Paolo Virzì: un ruolo difficilissimo -da cui il binomio bellezza-gioventù è escluso- e cioè quello di una donna in età, ormai malata terminale di cui viene ricostruita la vita fuori dagli schemi condotta nel passato. A interpretare il ruolo di lei da giovane è chiamata Micaela Ramazzotti, bellissima, incantevole, in quanto la bellezza della protagonista è elemento essenziale dello sviluppo della trama.
Ma guardiamo le ultime dolorose immagini del film: un impietoso primissimo piano è fissato sul volto della Sandrelli e lo spettatore si perde negli occhi dell’attrice, è rapito dalla dolcezza della sua voce e delle sue parole, ne segue le pieghe del suo sorriso. Occhi, voce, sorriso: sono questi i veicoli della bellezza che nasce dalla accettazione di sé e della propria storia, conquista per alcuni e consapevolezza istintiva per altri, a dimostrazione che il tempo non distrugge, ma trasforma l’avvenenza giovanile nel più duraturo fascino.

giovedì 1 aprile 2010

AVATAR, tra spettacolo ed ecologia...

@ Maria Pina

Sebbene la letteratura del cinema riporti come primo esempio di fantascienza “Viaggio nella Luna” di Georges Mélies, del 1902, tuttavia solo negli anni cinquanta il genere si afferma con le connotazioni che oggi gli riconosciamo, vale a dire l’ispirazione scientifica alla base della storia narrata. Astronomia, fisica, tecnologia spaziale, biologia, informatica, chimica, cibernetica, ecologia foniscono i presupposti su cui si innescano anche altre discipline, non ultime la storia e l’archeologia. Ambientazioni affascinanti e a volte visionarie, effetti speciali sempre più arditi, l’utilizzo integrato di mezzi e strumenti aggiuntivi in grado di aumentare la suggestione e il coinvolgimento dello spettatore: questi sono progressivamente diventati gli ingredienti sempre più indispensabili alla science fiction.


Il cinema di fantascienza è un genere sempre più controverso e ambiguo: a questo filone appartengono pellicole di estrema povertà, come anche opere tra le più impegnate e di spessore della storia del cinema. Si pensi a un cult del genere come “2001: Odissea nello spazio”; ci siamo lasciati alle spalle l’inizio del millennio e i viaggi sulla luna al suono de “Il Bel Danubio Blu”: essi non fanno parte della prassi quotidiana, ma quanta verità profetica nella supremazia del computer sulla gestione delle attività umane!
“Se qualcuno ha capito qualcosa, ciò significa che io ho sbagliato tutto”, ebbe a dire Stanley Kubrick, il regista e chi scrive ricorda ancora interminabili discussioni tra amici cinefili sulla corretta interpretazione della storia narrata.
Sebbene la letteratura di fantascienza si sia storicamente strutturata ed evoluta molto prima del corrispondente genere cinematografico, quest’ultimo ha colmato il gap temporale e ormai ha raggiunto, dagli anni cinquanta in poi (inizio storico della science fiction), un altissimo livello di ricercatezza mentre continua a sperimentare soluzioni sempre più ardite. Una semplice comparazione mentale tra qualche titolo degli ultimi cinque anni e il recentissimo “Avatar” basta per dimostrare la rapidità di evoluzione di questo genere cinematografico. Vincitore di tre premi Oscar nel 2010 (migliore fotografia, migliore scenografia e migliori effetti speciali), “Avatar” è il film evento della presente stagione cinematografica. L’opera è un riuscito mix di trama avventurosa e di effetti speciali, ma contiene anche molti spunti di riflessione sulle tematiche ecologiche e sui meccanismi politici ed economici dello sfruttamento delle risorse ambientali. Non soltanto evasione e meraviglia , non soltanto intrattenimento, quindi, dalla fantascienza, ma anche interrogativi e riflessioni, a volte persino implicazioni etiche che permangono nello spettatore.
E quale effetto può produrre nella sfera emozionale e comportamentale? Si ipotizza qui un’analisi che può ben applicarsi anche alle situazioni più estreme e fantasiose della science fiction. Per godere la rappresentazione in cui il mondo conosciuto è sovvertito nei suoi strumenti e nelle sue relazioni, si debbono dimenticare schemi logici, esperienze acquisite, abitudini mentali. Bisogna accettare, per esempio, che esistano creature diverse che vengono da altri mondi, con altre culture e altri valori (lezione non da poco per contrastare razzismo e latente). Di certo la visione di un film di fantascienza non permette l’esercizio di creatività dal testo scritto in cui si lascia al lettore la possibilità di visualizzare, con la sua immaginazione, un cielo con tre lune o un mondo dove bambini di seconda elementare progettano il loro edificio scolastico. Tuttavia l’accettazione di una realtà diversa da quella che l’esperienza quotidiana e la propria interpretazione del mondo, presupposto necessario della visione di un film come “Avatar”, rappresenta uno spunto non sottovalutabile per spingere lo spettatore a chiedersi se esista “altro da qui”, uno stimolo a conoscere mondi “alieni”, nel senso di estranei, non ancora esplorati.
Mi permetto la possibilità di esprimere una sottile soddisfazione da “scienziato” sulla fantascienza, sia letteraria che cinematografica: questo genere mostra come le scienze esatte, per molti sinonimo di aridità e schematicità di pensiero, permettano un largo esercizio di poesia e di creatività.
C’è un famoso racconto, “Omnilingue”, in cui la chiave per comprendere la lingua dell’antica civiltà marziana è la tavola periodica degli elementi, in quanto l’idrogeno è sempre idrogeno, sulla Terra come su Marte. Una bella lezione di dialogo interculturale, che fa cadere il pregiudizio fantascienza=evasione.

Schede Film:
TITOLO ORIGINALE: Le voyage dans la Lune TITOLO ORIGINALE: AVATAR
REGIA:Georges Méliès
SCENEGGIATURA: Georges Méliès 
Attori: Victor André: Luna (faccia); Bleuette Bernon: Ragazza sulla Luna; Victor André; Brunnet: Astronomo;
Depierre: Astronomo; Farjaux: Astronomo; Kelm: Astronomo; Georges Méliès: Professor Barbenfouillis; Jeanne d'Alcy; Henri Delannoy: Capitano; Ballerine del corpo di ballo dello Châtelet ; Acrobati delle Folies-Bergère: Seleniti
Paese: Francia
Anno: 1902
Durata: 14 min
Colore: B/N
Audio: muto
Genere: fantascienza, parodia
Soggetto: Jules Verne, H. G. Wells

TITOLO ORIGINALE: Avatar
REGIA: Jay Chandrasekhar
SCENEGGIATURA: Jay Chandrasekhar, Jonathan Davis, Kevin Heffernan, Steve Lemme, O'Brien John, Paul Soter, Erik Stolhanske
ATTORI: Seann William Scott, Johnny Knoxville, Jessica Simpson, Burt Reynolds, Willie Nelson, MC Gainey, Michael Weston, David Koechner, Lynda Carter, Nikki Griffin, Maxwell Jacqui, Carol Dupuy, Louis Dupuy, Brian Edwards, Charlie Finn, Franchi Larry , Gadison Tobi Brown, Hendershot Casey, Alicen Holden, Jaderlund Henry
FOTOGRAFIA: Lawrence Sher
MONTAGGIO: Haxall Lee
MUSICHE: Nathan Barr
PRODUZIONE: Le Immagini Gerber, Warner Bros. Pictures
DISTRIBUZIONE: Warner Bros. Pictures
PAESE: USA 2005
Genere: Azione
DURATA: 106 min
Formato: Colore
USCITA CINEMA: 02/09/2005

sabato 20 marzo 2010

Cinematherapy & Drammaterapia, un nuovo Corso ad Aprile a Roma


Anche un modulo di cinematherapy, secondo la lezione americana di Brigit Wolz, all'interno del nuovo corso di Drammaterapia per le Risorse in partenza il 9 aprile a Roma. La sponsorizzazione scientifica è dall'Atelier di Drammaterapia Liberamente sotto l'egida della Società It. di Ipnosi Sperimentale, Clinica ed Applicata e dell' Istituto Scuola Romana Rorschach.
Momento didattico all'interno dell'Atelier
all'interno di una piece drammaterapica,
dicembre 2007
Il Corso, diretto dallo psichiata e psicoterapeuta romano E. Gioacchini, si articolerà in seminari, conferenze e laboratori serali (al venerdì), con l'intervento di docenti provenineti dall'ambito psicologico e dello spettacolo. La metodologia si riferisce all’utilizzo della drammaterapia come metodo che permette ai partecipanti l’espressione creativa del proprio “processo artistico”, attraverso una vasta gamma di strumenti quali la recitazione, l’hypnodrama, lo storytelling, la musica, il gioco, la tecnica del mimo, il movimento e la danza. I partecipanti saranno guidati alla sperimentazione ed elaborazione personale del linguaggio teatrale, che passa sia attraverso la riscoperta di sé, del corpo e delle sue possibilità espressive, che la riformulazione di un nuovo rapporto con l’esterno -lo spazio, gli oggetti e gli altri.
In particolare, il modulo di cinematerapia sarà tenuto dal dott. E. Gioacchini e dalla dott.ssa Maria Pina Egidi. Il primo incontro è fissato per venerdì 9 aprile (h. 20,00). Iscrizioni a numero chiuso.
INFO Per informazioni ed iscrizioni ci si può rivolgere alla segreteria del CDIOT al Tel 335-8381627 - Fax: 06-86211363/70. E.mail, info.atelier@dramatherapy.it
 
Foto: Teatri di Roma, Il Colosseo, di C. Gioacchini

venerdì 12 marzo 2010

CINEMATHERAPY, LA CADUTA. IL FASCINO DISCRETO DEL MALE

Maria Pina Egidi

Nel blog gemello di drammaterapia, ci è stato inviato il post " Drammaterapia: amore e distruzione in una frase", ispirato al film “La caduta- gli ultimi giorni di Hitler”,  per introdurre e commentare parte del percorso creativo ed emozionale che del gruppo impegnato nella rappresentazione ispirata a “Il rinoceronte” di E. Ionesco. L’opera è, drammatica e complessa e si presta a diversi piani di lettura: storico-documentale, psicologico, ideologico o puramente narrativo ecc. Vogliamo in questa sede, analizzarne alcuni aspetti più specifici, legati alla rappresentazione del personaggio di Adolf Hitler.
Basato in parte sui racconti di Traudl Junge, che fu segretaria di Hitler durante gli ultimi giorni dell’aprile del 1945 del dittatore e dei suoi fedelissimi, nel bunker della Cancelleria del Reich, il film mostra gli eventi e le dinamiche tra gli abitatori dell’ultimo baluardo del nazismo. Mentre la Germania è allo stremo e Berlino sta per cadere, il Fuhrer sta progettando l'impossibile e folle riscatto del grande Reich, indifferente e insensibile alla caduta sempre più prossima. Con lui, nell’estrema follia, vi sono Eva Braun, Joseph Goebbels e la sua famiglia al completo, i fedelissimi dell’ultima ora, collaboratori e domestici. L’epilogo del film è conforme alla verità storica conosciuta: il matrimonio in extremis, il suicidio, pochi sopravvissuti. Tra questi la giovane segretaria Traudl che il Tribunale di guerra dichiarerà innocente, vista la giovane età.

Molti anni dopo gli eventi narrati nel film, Traudl Junge, in più di una intervista, affermerà dolorosamente di sentirsi ancora colpevole e connivente e di non aver mai considerato la sua gioventù all’epoca dei fatti come un alibi o un’attenuante. La donna, assolta dal tribunale di guerra, è colpevole secondo il tribunale della propria coscienza. Durissima conclusione; condivisibile se si fa proprio l'assunto che esistano diversi gradi di responsabilità individuale e che l'assenza di consapevolezza, la connivenza con il potere, l'ignoranza e la passività sostengano l'anima nera del mondo. Come può una ragazza di provincia di appena ventidue anni -tra l’altro, neanche iscritta al partito nazista- aver aderito in forma così totale a una ideologia di morte, tanto da sentirsi una criminale di guerra dopo tanti decenni? La risposta viene offerta dal film. Poter rappresentare i fatti da più angolazioni e più punti di vista, tanti quanti sono i protagonisti, è la grande forza di cinema e teatro, soprattutto se si parla di realtà storica. Viene data allo spettatore la possibilità di comprendere, in maniera globale, le dinamiche e le motivazioni delle azioni narrate che attraverso altre forme narrative, sarebbero evidenziabili solo per mezzo di processi di analisi e sintesi più articolate e complesse.

Deve essere preliminarmente detto che la situazione descritta, al di là della sua collocazione storica, è estrema. Senza dubbio la giovane Traudl del film è ritratta nella sua fase acerba, e, nella decotentestualizzazione storica e umana del film, le mancano ovviamente i punti di riferimento etici e culturali con cui rapportarsi. Bruno Ganz, che interpreta il Fuhrer, dà vita a un personaggio sempre sconvolgente: momenti più estremi di delirio si alternano a scene di bonarietà, comprensione, persino gentilezza d'animo . Si veda la scena in cui paternamente passa in rassegna le aspiranti segretarie e sceglie, alla fine , Traudl , “la ragazza di Monaco”, come sua diretta collaboratrice. Si pensi alla tenerezza delle carezze al cane, l'estrema fedeltà a Eva Braun o, ancora, al tremore che scuote la sua mano, che suscita immediatamente nello spettatore la visione dei propri vecchi afflitti dal Morbo di Parkinson.


Quando nelle sale cinematografiche, Il film lasciò interdetta parte della critica: troppo audace la rappresentazione delle contraddizioni del personaggio; troppo pericoloso “umanizzare” e “quotidianizzare” Hitler; inimmaginabile suscitare nello spettatore una forma -sia pure larvale- di empatia per quel tremore parkinsoniano e per quelle carezze al cane. Il rischio di uno scandaloso revisionismo era vista dietro l'angolo. A mio parere, il film è invece ben lontano da tale rischio. Esso mostra crudelmente una verità semplice e terribile. Sarebbe bello se l'istinto di distruzione e di morte, l'indifferenza verso i propri simili, la sopraffazione, l'inganno e tutto quello che si identifica con il concetto di “male” fossero sempre riconoscibili. Il biblico marchio di Caino, se fosse visibile e immediatamente identificabile, sarebbe un vantaggio enorme per riconoscere e individuare chi ha fatto del male la propria guida. Non vi è puzzo di zolfo rivelatore che segnali la presenza del maligno, né la bellezza ambigua e inquietante di un angelo caduto, forse in lotta con il suo creatore o forse semplicemente desideroso di vivere la propria individualità. Il male, il “demonio”, le anime nere sono subdoli e astuti: si nascondono dietro le spoglie della normalità, violano le serrature della coscienza umana con il grimaldello della banalità, della discrezione e del basso profilo.
La visione di film come “La caduta” è forse una delle situazioni meno “passive” per lo spettatore. Coinvolge sensi, emozioni e senso morale. Solo per citarne alcuni effetti: stupore di fronte alla crudeltà delle dinamiche dei suicidi (si veda Magda Goebbels), forse senso di colpa se, per una frazione di secondo, si è registrata la gentilezza di Hitler verso Traudl, rabbia di fronte al momento di relax di due donne che fumano all’esterno del bunker una sigaretta clandestina, prese dal piacere della situazione, ma cieche verso le macerie che le circondano Un’opera del genere rischia di lasciare lo spettatore sensibile con un senso di disagio che, se non “processato”, sarebbe un’opportunità persa. Il risveglio della coscienza, nuovi interrogativi sul proprio senso morale , sulla propria capacità di discernimento, sul proprio ruolo nel contesto in cui si vive e si opera, l’uso sapiente del senso critico e del libero arbitrio non sono solo capisaldi dell’etica personale, sono anche gli elementi che determinano l’identità individuale e la sua percezione , la pienezza e la saldezza che può chiamarsi “benessere”.
Uno spunto ricchissimo per la cinematherapy.

Foto: fotogrammi da La Caduta, gli ultmi giorni di Hitler,  di Oliver Hirschbiegel, 2004
Movie: Trailer di The Downfall: Hitler and the End of the Third ReichFilmografia:


Titolo originale: Der Untergang. Nazione: Germania. Data di uscita: 2004. Genere: Drammatico. Durata: 150 minuti. Regia: Oliver Hirschbiegel. Cast: Alexandra Maria Lara, Bruno Ganz, Corinna Harfouch, Juliane Kohler, Ulrich Matthes

martedì 9 marzo 2010

Cinema Therapy: l'uso dei lungometraggi naturalistici. Parte seconda

Il lungometraggio naturalistico: appunti per un possibile utilizzo in cinema therapy di M. P. Egidi e E. Gioacchini (parte seconda)

Come recentemente abbiamo già espresso nel corso di alcuni dibattiti in rete, riteniamo che a buon diritto l’utilizzo di documentari naturalistici e, come nel caso della Marcia Dei Pinguini, in format di cartoon, si possa prestare in setting di cinema therapy dedicati. I contesti, lo ripetiamo, possono andare da quelli in cui venga valutato importante il target della "rifondazione" di progetti personali di vita, momentaneamente contratti nell'esperienza del singolo o del gruppo, a quelli in cui ci si prefigge di sottolineare l’importanza delle risorse inespresse. In tali situazioni, il passaggio che in metafora riesce creativamente a parafrasare comportamenti tipicamente umani (antropomorfizzazione dell’animale) torna alla persona con correzioni che a volte sarebbero difficilmente accettabili nel senso comune. Ci spieghiamo meglio... In una società moderna, tipicamente aliena dall’uso del mito, ed orientata più in senso "digitale" che "analogico", che permette sempre meno posizioni di giudizio "processuale", la didascalia sottintesa nel testo cinematografico o la morale del racconto, il messaggio della trama, riesce maggiormente ad aggirare l’ostacolo della censura, ed il facile giudizio di “retorica” altrimenti percepito nel messaggio ed a lavorare profondamente. L’ingenuità del personaggio animale, così antropomorfizzato, è accettata, come pure sono by-passati il senso critico o del ridicolo, eventualmente suscitati dagli elementi simbolici del testo. Nel film "La Marcia dei Pinguini", l’abilità del piccolo animale nel passare dalla profondità dell’oceano, alla superficie difficile eppure “possibile” della terraferma, costituisce, ad esempio, una importante metafora della possibilità di scoprire abilità e risorse sconosciute; così come la sua “marcia” è una buona esemplificazione di un percorso verso il cambiamento, la eventuale necessità di una ridefinizione di ruoli.
Il gap generazionale così acutamente tratteggiato e reso caricaturale nella sceneggiatura del film, ingenera riflessioni che superano la critica formale del “risaputo”, dello “scontato”, proprio perché sono animali a parlare di noi, con tematiche che parlano insieme di leggi naturali e di psicologia dell’uomo. Il tema del dolore, della sconfitta, come quello del coraggio ed anche della gratuità degli eventi favorevoli che sembrano spesso poter premiare la perseveranza, il rischio, in fondo l'attesa del positivo, possono articolarsi in ambientazioni inusuali, che li ripropongono in modo ancora originale e nuovo alla rilettura dello spettatore. La nozione scientifica, così romanzata nel testo, finisce per dare forza e credibilità a messaggi più importanti che riguardano la relazione, l'attribuzione personale di senso, gli obiettivi.
Nella parte finale del film, poi, quest’ultimo, l’uomo, è finalmente messo a confronto con se stesso, con la propria capacità di saper nascondere delle verità, di sfruttarle egoisticamente ad esclusivo personale vantaggio o finalmente di farne elemento di progresso insieme per l’individuo e per il gruppo. Da sottolineare l’elemento sottinteso che evidenzia il popolo dei personaggi di questo genere di documentari o film, gli animali e quello degli spettatori, gli uomini, come appartenenti allo stesso territorio e con la necessità di una contestuale armonica convivenza su un identico pianeta. Sensi di solitudine, perso spirito di appartenenza al gruppo, radicali asociali od anche dissociali di alcune personalità, possono utilmente ricevere suggestioni, come motori alla ridefinizione di ruoli, in una silenziosa reverie di racconti personali apparentemente persi nella memoria cosciente e recuperati proprio attraverso la positiva “regressione al servizio dell’Io” che lo spettacolo sollecita.

Foto: La Marche de l'empereur, fotogrammi
Filmografia:
REGIA: Luc Jacquet
FORMATO: Colore
SCENEGGIATURA: Luc Jacquet, Michel Fessler
FOTOGRAFIA: Laurent Chalet, Jerome Maison
MONTAGGIO: Sabine Emiliani
MUSICHE: Emilie Simon
PRODUZIONE: Bonne Pioche, Canal+, Alliance de Production Cinematographique, Buena Vista
DISTRIBUZIONE: Lucky Red
PAESE: Francia 2005
GENERE: Documentario
DURATA: 80 Min

sabato 6 marzo 2010

Cinematherapy: l'uso dei lungometraggi naturalistici



Premesso che qui si parla del documentario o del lungometraggio naturalistico di qualità e l'’oggetto della discussione è il lavoro di ripresa dal vivo della realtà naturale, senza alcuna manipolazione, aggiustamento, abbellimento del soggetto e dell’ambientazione, desideriamo analizzare la possibilità e le potenzialità di un documentario sulla wilderness nei setting di cinematherapy.
Il successo e il consenso intorno a tale genere è indubbio. Cito qui un recente caso come la “Marcia dei Pinguini” (http://www.lamarciadeipinguini.it), film documentario di produzione francese, che mostra il lungo e impervio cammino, tra i ghiacci antartici, di tali animali per garantire la sopravvivenza della specie.
Pochi colori: il bianco della location, la livrea bicolore del pinguino, l’azzurro del cielo e la gamma dei grigi delle tempeste dei ghiacci. Scarsi protagonisti: i pinguini raramente interagiscono con altri animali, quasi inesistenti le spettacolari lotte contro predatori, assente l’uomo (ovviamente) e la sua opera. Eppure, il film, uscito nel 2005 in Italia, ebbe un successo eclatante e il commento italiano di un personaggio di vasto consenso come Fiorello era “solo” un valore aggiunto a un’opera che puntava sul fascino di una storia vera e dura da raccontare senza sconti e vinceva la scommessa. Successo meritato, direi, di questa e di altre opere, analoghe per ispirazione e coerenza stilistica e di intenti. Soprattutto se si pensa che c’è un “film nel film”, in questi casi. Pochi minuti di onesta ripresa, condotta con l’occhio e lo spirito del naturalista osservatore, sono spessissimo la ricompensa per giorni di appostamenti, di monitoraggi e di accorgimenti complessi, finalizzati, nella stessa misura, a non turbare gli habitat e a garantire un risultato ottimale dal punto di vista tecnico.
La misura del consenso e dell’interesse verso questo genere può essere data da ciò che capita di frequente nell’esperienza professionale di chi opera – inclusa la sottoscritta - nel campo dell’educazione ambientale e della biologia della conservazione.
Circola tra noi “addetti ai lavori” la storia che, in una scuola elementare romana, quando fu chiesto ai bambini di citare alcuni animali selvatici, gran parte degli allievi citarono lo gnu, sottovalutando specie più familiari del nostro ambiente quali l’istrice e la volpe. E’ una risposta che lascia basiti sul momento, ma forse neanche poi troppo sorprendente se si pensa che esiste una nuova generazione urbana che non conosce le lucciole (ricomparse solo recentemente in parchi e giardini, dopo un diminuzione dovuta all’inquinamento) e che ha da tempo fraternizzato con i cicli vitali di animali esotici, grazie ai documentari televisivi.
Le finalità dei documentari naturalistici sono commendevoli. Educano, informano, comunicano valori, a volte divertono o fanno riflettere. Non fanno sconti: niente “happy end” – o meglio – l’happy end è sotteso, a volte, nella trama del lavoro perché se si riesce a documentare l’intero ciclo vitale di un esemplare o di un branco, si mostra il successo evolutivo, la vittoria sugli elementi, il compimento di un’avventura di vita. Tuttavia non è possibile nascondere allo spettatore immagini e concetti fondanti della scienza: la morte certa di un cucciolo ferito o abbandonato, la predazione crudele (ma mai impari), la scomparsa di habitat sotto pressioni naturali o antropiche.
Quindi, ci si può chiedere, quanto sia efficace e opportuno l’impiego di tale genere cinematografico nei percorsi di cinematherapy.
Prescindendo dal valore didattico del documentario/lungometraggio naturalistico di mostrare correttamente le leggi di natura, quando e come è possibile utilizzarlo in un setting di cinematerapia, tenuto conto che (come si legge nel frame a fianco) la scelta dell’opera è affidata al soggetto/paziente?
La mia personale risposta di cultore della materia, è per l’utilizzo di tale genere per la valorizzazione delle risorse personali dell'individuo (piccolo o grande che sia). Ad esempio, nel film in oggetto viene mostrato correttamente l’assunto darwiniano della sopravvivenza del più adatto (non del più forte, si badi bene!) e ciò può far comprendere quanto sia opportuno e necessario andare oltre i propri limiti, saper riconoscere le insidie dell’ambiente in cui si vive e si opera, imparare una nuova disciplina di sé stessi, non essere statici nei propri obiettivi, liberarsi da paure e schemi mentali non più adattivi…

Cinema Therapy : Camera con Vista


@ Maria Pina Egidi


"Spense la lampada. La luce non le permetteva di pensare, né di sentire. Smise di cercare di capire se stessa, e si unì alle vaste schiere di persone comuni, che non seguono né il cuore né il cervello e marciano verso il loro destino con degli slogan. Le schiere sono piene di gente simpatica e pia. Ma costoro hanno ceduto all'unico nemico che conti... il nemico che è dentro di noi. Hanno peccato contro la passione e la verità, e vana sarà la loro gara per inseguire la virtù. Come gli anni passeranno, saranno criticati. La loro cordialità e la loro pietà mostreranno delle crepe, il loro spirito diverrà cinismo, la loro generosità ipocrisia; sentiranno e cagioneranno inquietudine dovunque vadano. Hanno peccato contro Eros e contro Pallade Atena, e non per intervento celeste, ma seguendo il normale corso della natura, quelle divinità alleate saranno vendicate!
Camera con Vista, Edward Morgan Forster

Il peccato originale per gli scienziati e per chi ha deciso di vivere con le proprie forze l’avventura terrena è, come ho già scritto, andare contro le legge dell’eterno mutare delle cose.
L’energia, la materia, la natura, la specie umana, l’uomo, l’individuo con la sua coscienza, la società.. tutto cambia, si trasforma, è assodato, dimostrato dalle leggi della termodinamica, come dall’esperienza quotidiana.
Ma parlando, in termini “religiosi” se si pecca contro il divenire, c’è anche una punizione, o - per gli scienziati, - una conseguenza, anche essa legge di natura, quella dell’azione e reazione. Punizione e inferno in terra, quella del rimanere uguali a sé stessi, di non conoscere mai la bellezza di una maturità ricca con una mente e un’anima così piene di cose da ricordare e di emozioni da rinverdire che si sente il bisogno di donarle, di condividerle, di farle uscire a prendere aria per fare spazio a nuove cose da conoscere e da vivere
Quando, il giorno di uno dei miei compleanni più “critici”, mi guardai allo specchio per scrutare se il tempo aveva lasciato segni (come se questi spuntassero in una notte!), mi accorsi che la mia faccia era quella del giorno prima (le donne fanno di queste cose..) e non ne fui sollevata. Pensai “E se la mia faccia rimanesse sempre uguale, perché nessun sorriso profondo riuscirà a tracciare segni, perché il sole e il vento non potranno arrivare a colpirla, perchè né malattia né fatica lasceranno tracce? Che disastro e che noia sarebbe vedermi tutti i giorni sempre uguale…” Ovviamente il pensiero non era così limpido e articolato, né espresso con parole tanto solenni, c’era sempre la vanità femminile a fare da contraltare e solo ora so dargli il senso completo.
Ho appena terminato la lettura di “Camera con vista” e l’ho trovato stupendo. Vi si narra di Lucy, fanciulla inglese che scopre la differenza tra l’ascolto del buon senso e l’ascolto di sé.
Solo quando la protagonista smetterà di mentire a sé stessa e agli altri, quando riuscirà a capire che ogni scelta ha un prezzo da pagare, ma che occorre farla con coerenza e rispetto di sé, allora uscirà dalla schiera delle persone che hanno rifiutato l’evoluzione, sia essa guidata dalla ragione o dal sentimento (citazione nella citazione).
In questa frase che tanto mi ha colpito, c'è tutto l’orrore di una involuzione (non sempre il cambiamento è in meglio), descritta con poche frasi per mostrare che la rinuncia al proprio cambiamento non è senza conseguenze, non garantisce la tranquillità e la pace interiore. Come una nube tossica, come la muffa del pane, corrompe le doti più nobili, porta alla decadenza le migliori intenzioni.
Leggendo, mi sono tornati in mente i vestiti mai indossati perché troppo eleganti (sapete i completi che si comprano per un matrimonio o per una grande occasione?). Rimangono uguali nella forma ma sbiadiscono, ingialliscono, si impolverano, suscitano tristezza e sono un poco strani..., ma sono nostri.

Camera con Vista (Room vith View), di Edward Morgan ForsterFilmografia:

Movie:
Regia: James Ivory Sceneggiatura: Ruth Prawer Jhabvala Attori: Maggie Smith, Helena Bonham Carter, Julian Sands, Denholm Elliott, Simon Callow, Patrick Godfrey, Judi Dench, Rupert Graves, Fabia Drake, Daniel Day-Lewis, Joan Henley, Rosemary Leach, Maria Britneva Fotografia: Tony Pierce-Roberts Montaggio: Humphrey Dixon Musiche: Richard Robbins Produzione: GOLDCREST FILMS LTD., MERCHANT-IVORY PRODUCTIONS, NATIONAL FILM FINANCE CORPORATION, CURZON FILM DISTRIBUTORS, FILM FOUR INTERNATIONAL, MERCHANT-IVORY PRODUCTIONS DISTRIBUZIONE: BIM DISTRIBUZIONE (1986) - AUDIOVISIVIPAESE: Gran Bretagna 1985 Genere: Commedia, Romantico Durata: 115 Min Formato: Colore PANORAMICA
Soggetto: romanzo di E.M. Forster
Riconoscimenti: 3 Premi Oscar 1986: Migliore Sceneggiatura non originale, Migliore Scenografia, Migliori Costumi. Premio David 1987 per il Migliore Regista Straniero a Jameis Ivory